RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLIX n.
79 - Testo della trasmissione di domenica 20 marzo 2005
IL PAPA E LA SANTA SEDE:
IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Si conclude
oggi presso l’Università di Ancona il convegno “L’Africa in aiuto
dell’Occidente”
In Libano l’opposizione anti-siriana rifiuta il
dialogo con il presidente Lahoud
In un attentato nella capitale del Qatar muore un
britannico, oltre al kamikaze egiziano
Interrotto il cessate-il–fuoco in Medio Oriente:
tre israeliani feriti nella Striscia di Gaza.
20 marzo 2005
LA BENEDIZIONE DEL PAPA, CHE SI AFFACCIA DALLA
FINESTRA IN PIAZZA SAN PIETRO
DOPO
L’ANGELUS, A CONCLUSIONE DELLA CELEBRAZIONE EUCARISTICA
DELLA DOMENICA DELLE PALME PRESIEDUTA DAL
CARDINALE RUINI.
AI GIOVANI UN PENSIERO SPECIALE NELL’ODIERNA
GIORNATA MONDIALE
DELLA GIOVENTU’ E IN VISTA DELL’INCONTRO A COLONIA
IN AGOSTO
In questa Domenica delle Palme
il pensiero del Papa va in modo tutto particolare ai giovani. Ricorda la prima
GMG, 20 anni fa, nel messaggio letto all’Angelus da mons. Leonardo Sandri,
sostituto della Segreteria di Stato. Saluta “con grande gioia” i ragazzi della
diocesi di Roma che la vivono oggi e invita tutti a prendere parte all’Incontro
mondiale della Gioventù che si svolgerà in agosto a Colonia, nel cuore della
Germania e dell’Europa. Ma soprattutto il Papa lancia ai giovani l’invito a
fare una precisa scelta di vita. Per tutti la sua benedizione, impartita dalla
finestra con una palma nella mano quando intorno alle 12.0 si è affacciato per
qualche momento su una piazza san Pietro piena di sole e arricchita da tante
palme. Il servizio di Fausta Speranza:
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Siate “testimoni della Croce
gloriosa di Cristo”. E l’invito del Papa è seguito dalle parole: “Non abbiate
paura”. “La gioia del Signore, crocifisso e risorto sia la vostra gioia”,
spiega il Papa ai giovani che lo hanno seguito in varie parti del mondo nelle
diverse GMG. E il Papa ha proprio in mente tutto il percorso fatto insieme
quando afferma:
“Continuate senza stancarvi il
cammino intrapreso”.
E’ un cammino ventennale ed è un
cammino partito proprio da piazza San Pietro, da dove oggi Giovanni Paolo II
confessa di rendersi “sempre più conto di quanto sia stato provvidenziale e profetico
che proprio questo giorno, la Domenica della Palme e della Passione del
Signore, sia diventato la Giornata mondiale della Gioventù”. E il Papa spiega
chiaramente perché:
“Questa festa contiene una
grazia speciale, quella della gioia unita alla Croce, che riassume in sé il
mistero cristiano”.
“Voi oggi adorate la Croce di
Cristo, che portate in tutto il mondo – afferma – perché avete creduto
all’amore di Dio, rivelatosi pienamente in Cristo crocifisso”. E con il pensiero
rivolto all’appuntamento del prossimo agosto, il Papa ricorda che l’Incontro
mondiale si terrà nella città tedesca di Colonia e che nella “stupenda
cattedrale di quella città si venerano le reliquie dei santi Magi”. Per questo
– aggiunge – sono diventati in un certo senso le vostre guide verso
quell’appuntamento”. “Vennero dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù e
dichiararono: ‘Siamo venuti per adorarlo’ (Mt 2,2)” – spiega il
Papa. Queste parole, così ricche di significato, costituiscono il tema del
vostro itinerario spirituale e catechistico verso la Giornata Mondiale della
Gioventù.”
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CRISTO NELLA CROCE
CONDIVIDE ANCHE IL LATO PIU’ OSCURO
DELLA CONDIZIONE UMANA: COSÌ IL CARDINALE RUINI
NELLA DOMENICA DELLE PALME
E IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA MONDIALE DELLA
GIOVENTÙ
- Intervista con padre Raniero Cantalamessa -
L’abbraccio del colonnato
berniniano di Piazza San Pietro ha accolto oggi un grande momento di preghiera,
in occasione della Domenica delle Palme, che apre la Settimana Santa e che
coincide con la XX Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata a livello diocesano.
La celebrazione, preceduta dalla processione e dalla benedizione dei rami di
ulivo e di palma, è stata presieduta
dal cardinale Camillo Ruini, Vicario di Giovanni Paolo II per la diocesi di
Roma. Il servizio di Barbara Castelli:
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L’osannata accoglienza in
Gerusalemme e la crocifissione: questi momenti dell’ultima settimana della vita
terrena di Cristo sintetizzano in maniera mirabile “la fragilità e
l’inaffidabilità del cuore dell’uomo”. Ma questo contrasto è solo “una
dimensione, e non la più profonda, della Passione del Signore”. Lo ha ricordato
questa mattina il cardinale Camillo Ruini, durante la celebrazione della Domenica delle Palme. Proprio dalla sofferenza
e dalla morte del Figlio di Dio, infatti, “prende luce il mistero di Dio e
anche il mistero dell’uomo”. “Se guardiamo alle tante sofferenze umane,
soprattutto alla sofferenza non colpevole – ha proseguito il porporato –
rimaniamo come smarriti e siamo spinti a chiederci se veramente Dio ci vuol
bene e si prende cura di noi, oppure se non ci sia, per caso, un destino
malvagio che nemmeno Dio può cambiare”.
“Nella croce di Cristo, invece, veniamo a contatto con il vero volto
di Dio. (…) Nella croce di Cristo,
infatti, il volto di Dio non perde la sua grandezza e il suo mistero, eppure
diventa straordinariamente vicino e amico, perché è il volto di Colui che, nel
proprio Figlio, condivide fino in fondo anche il lato più oscuro della condizione
umana”.
In questo mondo smarrito, sfigurato
da tante guerre, miserie e incomprensioni, l’uomo può guardare con speranza
alla croce di Cristo, che rende meno
“oscuro e insensato” “il dramma e il mistero della sofferenza”. Certo
dinanzi a questo simbolo di amore infinito, “viene meno ogni nostra pretesa di
innocenza – ha aggiunto il cardinale Ruini – ogni velleità di poter costruire
con le nostre mani un mondo giusto e perfetto, ma non per questo siamo
costretti ad abbandonarci al pessimismo e a perdere la fiducia nella vita”.
“Mentre ci riconosciamo creature fragili e peccatrici, ci sentiamo
abbracciati e sostenuti dall’amore di Dio, che è più forte del peccato e della
morte, e diventiamo capaci di scoprire, nelle nostre anche piccole vicende
quotidiane, un significato straordinariamente ricco e pieno, perché destinato
non a disperdersi con il passare del tempo ma a portare frutto per l’eternità”.
Il pensiero del cardinale Ruini
è poi andato ai giovani, presenti numerosi in piazza San Pietro per celebrare,
a livello diocesano, la XX Giornata Mondiale della Gioventù. Invitandoli ad
accogliere sempre Cristo nelle proprie vite, il cardinale Ruini ha esortato i ragazzi
a non avere paura della croce, anche se agli uomini del nostro tempo la
sofferenza appare solo come qualcosa “di inutile e di dannoso”. “La croce di
Gesù non deprime e non indebolisce – ha sottolineato – da essa, al contrario,
vengono energie sempre nuove, quelle che risplendono nelle imprese dei Santi e
che hanno reso feconda la storia della Chiesa, quelle che oggi traspaiono con
speciale chiarezza dal volto affaticato del Santo Padre”.
Ma cosa ha da dire oggi la croce
all’uomo? Lo abbiamo chiesto ad alcuni giovani presenti in Piazza San Pietro.
D. – Cosa vuol dire oggi per un
giovane essere un cristiano?
R. – Significa portare un messaggio
di pace e di fratellanza nel mondo di tutti i giorni.
R. – E’ un impegno grande
perché, comunque, vediamo che ai tempi d’oggi viene preso meno in
considerazione, rispetto a prima, il fatto di essere cristiani. Chi sceglie questa
strada, quella di seguire Gesù, ha un compito grave ma anche bellissimo, perché
viviamo in mezzo agli altri per essere qualcosa di diverso.
R. – Significa fidarsi di un
compagno di viaggio, che è Gesù.
R. – Seguire un percorso nella
propria vita, avendo un punto di riferimento, per non sentirsi smarriti, per
non sentirsi soli.
D. – Un pensiero per Giovanni
Paolo II ...
R. – Spero che torni ‘alla
grande’, come sempre.
R. – E’ il mio esempio. Gli
vogliamo tutti bene, per noi giovani è veramente un uomo santo, un uomo santo
da seguire.
R. – Spero che si rimetta presto
e torni giovane con noi.
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Ma
per approfondire il signicato e il valore per la fede cristiana della Domenica
delle Palme, ascoltiamo, nell’intervista di Giovanni Peduto, padre Raniero
Cantalamessa predicatore della Casa Pontificia:
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R. –
Storicamente ricordiamo l’episodio dell’entrata di Gesù a Gerusalemme da Betania,
accompagnato e festeggiato dalla folla, dai bambini che stendono i mantelli, i
rami … è l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Misticamente e
spiritualmente ricordiamo anche l’inizio della Passione perché, di fatto, in
questa domenica, si legge il Vangelo della Passione. E’ un’introduzione
gloriosa alla Passione del Signore, carica di tanti significati: questo strano
Osanna poi seguito dalla Crocifissione ha fatto sempre riflettere nella storia.
D. –
Cosa vuol dire per noi quest’episodio avvenuto pressoché 2000 anni fa …
l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme?
R. –
Io credo che nell’intenzione di Gesù ci fosse anche un senso profetico. Gesù
voleva dimostrare, in questo modo, che era il Messia, perché del Messia si
diceva che sarebbe arrivato in Gerusalemme cavalcando un’asina. Gesù ha voluto
premettere, all’ignominia della Passione, una prova della sua messianicità e
l’ha fatta proclamare alla gente semplice, al popolo e ai fanciulli.
D. –
Padre, non le sembra che ancora oggi noi rischiamo di osannare Gesù in un primo
tempo, e poi, all’atto pratico, di eliminarlo dalla nostra vita quotidiana?
R. –
Sì, questo avviene anche abbastanza regolarmente. Noi siamo pronti ad acclamare
il Signore quando tutto ci va bene, però, appena le cose si mettono male oppure
l’opinione pubblica si rivolge contro Gesù e contro la Chiesa, allora è facile
mimetizzarci ed andare dietro anche noi. Questo può avere anche delle altre
applicazioni: noi siamo pronti a seguire Gesù nella gioia e meno nella Croce.
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Nell’odierna
Domenica delle Palme, si è rinnovata l’antica tradizione dei Parmureli, le
composizioni di foglie di palma intrecciate, che il Centro Studi e Ricerche per
le Palme (Sanremo) e i Comuni di Bordighera (città delle palme) e Sanremo
(città dei fiori) offrono al Vaticano, in collaborazione con la Cooperativa
Sociale Il Cammino. Alla finestra della camera di Giovanni Paolo
II è stato, infatti, collocato il
parmurelo di 2 metri e mezzo preparato appositamente per il Papa, mentre
durante la processione dall’obelisco al sagrato, vescovi e cardinali hanno
portato le composizioni realizzate dagli artigiani bordigotti e sanremaschi.
La tradizione dei Parmureli di Sanremo e Bordighera
ha radice antiche. Le palme della riviera divennero protagoniste della Domenica
delle Palme grazie allo slancio sincero di Benedetto Bresca, presente in
Vaticano il giorno in cui vi venne eretto l’obelisco più famoso di Roma Antica
e che consentì di evitare una strage di fedeli, accorsi per l’occasione. I fatti si riferiscono al 1586, anno in cui, per volere
di Papa Sisto V, l’architetto Domenico Fontana collocò in Piazza San Pietro il
gigantesco obelisco egizio, trasportato a Roma da Caligola nel 39 d.C. Operazione
ardita: l’obelisco è alto 26 metri e pesa 350 tonnellate. Per l’operazione
vennero impiegati – pare – novecento operai, centoquaranta cavalli e
quarantaquattro argani. Il 10 settembre, al momento di issare definitivamente
l’obelisco, così come da espressa disposizione del Santo Padre, chiunque avesse
osato proferir verbo durante la delicata e rischiosa operazione sarebbe stato
condannato alla pena di morte. A un certo punto, però, l’obelisco vacillò
pericolosamente, le funi con cui si stava sollevando l’enorme scultura
monolitica erano prossime al punto di rottura. Benedetto Bresca, capitano
sanremasco, incurante della pena di morte certa che l’avrebbe colpito gridò:
"Aiga ae corde!" (Acqua alle corde). L’imperioso consiglio del marinaio
ligure venne subito accolto dagli ingegneri del Vaticano e si evitò così il
surriscaldamento delle gomene che sostenevano l’obelisco, consentendo di
portare a buon fine l’impresa. Il Papa non punì l’audace capitano Bresca, anzi
volle compensarlo accordando a lui e alla sua discendenza il privilegio di poter
inviare a Roma i “parmureli” necessari per le feste pasquali in San Pietro. Da
allora, da oltre quattro secoli, le città di Sanremo e Bordighera hanno legato
il loro nome alla tradizionale cerimonia della benedizione delle palme, per la
domenica che precede la Santa Pasqua.
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20 marzo 2005
DUE
ANNI FA INIZIAVA LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO.
OGGI L’IRAQ PROSEGUE IL DIFFICILE PERCORSO
VERSO LA DEMOCRAZIA
-
Interviste con mons. Shlemon Warduni, Francesco Battistini e Sergio Romano -
Il
presidente americano George W. Bush, nel secondo anniversario dell’attacco
all’Iraq, riafferma che la guerra era giusta e che, grazie all’invasione, la
libertà è in marcia e “ispira i riformatori per la democrazia da Beirut a
Teheran”. Il capo della Casa Bianca lo ha riferito nel discorso alla radio del
sabato mattina, mentre l’America e l’Europa erano percorse da fermenti di
protesta contro il conflitto e mentre, a Baghdad, le truppe del contingente
statunitense continuano ad essere sotto il tiro degli insorti. Per Bush
l’insediamento, avvenuto mercoledì, dell’Assemblea nazionale irachena, uscita
dal voto del 30 gennaio, è una vittoria della libertà, resa possibile dal
valore delle truppe statunitensi e dei Paesi alleati. Intanto, altri episodi di
sangue hanno caratterizzato la giornata irachena, con l’uccisione di un
poliziotto a Kirkuk, nel nord del Paese. Ma ripercorriamo questi due anni di
guerra irachena, con il servizio di Salvatore Sabatino:
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Il
silenzio notturno viene interrotto dalle sirene anti-aeree. La scura notte
irachena riecheggia di motori e bombe. Le prime esplosioni e Baghdad che dopo
un lungo braccio di ferro diplomatico torna nell’incubo della paura. Era la
notte tra il 19 ed il 20 marzo 2003 e la seconda Guerra del Golfo iniziò sotto
gli occhi di un mondo in attesa. Le immagini chiare di quei primi ordigni che
colpirono i palazzi di Saddam fecero il giro dei cinque Continenti. Una notte
che notte non fu, trascorsa davanti alla televisione, per vedere ciò che
accadeva. La cinica curiosità fece di quella diretta uno spettacolo mediatico
unico nella storia dell’umanità: la prima guerra seguita veramente in diretta
dalla Tv. Uno spettacolo tetro, vissuto drammaticamente da chi a Baghdad c’era
in quella notte, dai milioni di abitanti che, asserragliati in casa, vivevano
tra il terrore della morte e la speranza di un futuro senza il loro dittatore.
Un futuro che si vestiva sempre più dei panni della libertà, come ci conferma
mons. Shlemon Warduni, vescono ausiliare di Baghdad:
“La
gente voleva che le cose cambiassero, voleva respirare aria perché eravamo
soffocati. Ci aspettavamo una liberazione molto più bella, più giusta, reale:
da due anni, noi soffriamo tanto, l’Iraq soffre tanto. Tutta la nostra cultura
è scomparsa: ci sono stati tanti saccheggi, uccisioni, rapimenti a scopo di
estorsione, poi alcuni dei rapiti sono stati uccisi ... per non parlare delle
esplosioni, delle bombe ... veramente, qui da noi la gente soffre tanto. Noi
viviamo soltanto per la speranza; diciamo: ‘Speriamo nel futuro!’”.
Poi la
guerra proseguì nelle settimane successive, dominata dalle cronache militari
dei grandi eserciti statunitense e britannico che invasero l’Iraq creando una
sorta di tenaglia. A seguire, l’assedio e la caduta di Bassora, la battaglia di
Baghdad, l’occupazione dei principali centri strategici dell’ormai decaduto
regime. I morti, decine, centinaia, migliaia, raccontati attraverso immagini di
sangue. Cronache di obiettivi militari centrati, confusi con mercati o
abitazioni civili. La televisione portò nelle case del mondo il dolore degli
iracheni, ma anche la gioia della conquista della capitale. La statua di Saddam
cadde sotto gli occhi del mondo, mentre la guerriglia lasciava sempre meno
spazio alla speranza. Arrivarono, poi, i primi arresti eccellenti: quella rosa
di nomi del vecchio regime, stampati su un mazzo di carte, che man mano finiva
nelle mani degli statunitensi. Fino all’arresto del numero uno: Saddam Hussein,
la preda più ambita, divenuto il simbolo di una storia ormai finita. Poi arrivò
lo scandalo di Abu Ghraib, vera chiave di volta nell’atteggiamento delle
popolazioni arabe, deluse da una libertà ancora troppo lontana. E ancora, la
guerriglia sunnita iniziò la terribile tattica dei rapimenti. Occidentali fatti
prigionieri, sgozzati davanti alle telecamere, ridotti in schiavitù senza
pietà. Ed uno dei primi rapiti fu il giornalista italiano Francesco Battistini,
del Corriere della Sera, che ci racconta la sua esperienza:
“Io ho avuto la fortuna di essere stato ‘preso’ da truppe regolari e
questo è stato per me una garanzia rispetto ai colleghi che hanno avuto, in
seguito, disgrazie peggiori. La tecnica dei rapimenti è una tecnica che – temo
– si estenderà anche ai prossimi conflitti. Ci sono state avvisaglie in
Afghanistan, perfino negli ormai dimenticati Balcani ci sono stati tentativi di
sequestro di osservatori di organizzazioni internazionali nelle settimane e nei
mesi scorsi. Temo che gli iracheni, in questo, abbiano fatto scuola e che la
storia non sia finita”.
Una guerra fatta di persone,
raccontata con immagini terribili, ma anche seguita dalla diplomazia di mezzo
mondo. Alleanze che cadono, blocchi che si contrappongono, frizioni senza
precedenti. E’ l’Europa il colosso più diviso, con Francia e Germania che insistono
per il ‘no’ alla guerra; sull’altro fronte, Gran Bretagna, Italia e Spagna:
alleati di ferro di Washington. Ma arriva l’attentato di Madrid, cambia il
governo, Zapatero prende il posto di Aznar ed i militari iberici lasciano il
Paese del Golfo. Lo scacchiere mediorientale diventa lo snodo della politica
internazionale, il peso che sposta gli equilibri, come confermato anche da
Sergio Romano, già ambasciatore ed esperto di politica internazionale:
“Le
ripercussioni sono molte e non sono soltanto sullo scacchiere mediorientale,
perché ci sono Paesi, naturalmente, che hanno percepito la presenza americana
in Iraq come una minaccia. Per l’Iran, per esempio, gli Stati Uniti sono ormai
una potenza confinante e non è improbabile che l’insistenza con cui l’Iran sta
perseguendo con ogni probabilità un programma nucleare, sia dovuto proprio alla
minacciosa vicinanza con gli Stati Uniti. Qualcosa del genere è accaduto per
altri Paesi che si sono riavvicinati, pur avendo avuto in passato forti
contrasti, proprio perché ritengono necessario fare gruppo contro un’America
che è diventata troppo invadente e potente”.
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“BAMBINI CON LE ALI”:
UNA GIORNATA PER DENUNCIARE I PROBLEMI
DEI FIGLI DI DONNE RECLUSE IN PRIGIONE
- Intervista con Beatrice Castagni -
“Bambini con le ali”. E’ il
titolo della giornata di sensibilizzazione a favore dei bambini che vivono in
carcere con le madri detenute, organizzata nella capitale italiana e nella
regione Lazio. La manifestazione coinvolge testimonial del mondo della
cultura, dello sport, dello spettacolo e anche alcuni nonni, autori di un
volumetto di fiabe, i cui proventi delle vendite saranno devoluti a favore dei
piccoli che hanno la mamma in prigione. Ma è giusto che questi bimbi stiano
accanto alla madre, sebbene detenuta? Marina Tomarro lo ha chiesto all’avvocato
Beatrice Castagni, volontaria dell’associazione “Belli come il Sole”, impegnata
nel sostegno alle mamme detenute:
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R. – E’ molto importante che
questi bambini vengano lasciati accanto alla mamma, perché logicamente è meglio
una situazione difficile che non avere assolutamente la madre. L’importante è
tirare fuori dal carcere questa mamma e questi bambini. La Legge Finocchiaro
del 2001 ha fatto enormi passi avanti: ha previsto, innanzitutto, la detenzione
domiciliare per quelle mamme che hanno figli di età inferiore a dieci anni.
Poi, c’è la previsione di scontare la pena in luoghi alternativi al carcere che
possono essere, oltre alla propria abitazione, anche case di cura, di
accoglienza, di assistenza dove queste mamme potrebbero andare con i bambini.
Il problema, come abbiamo visto, è un problema di cavilli, è un problema di
sicurezza. Non si riesce ancora ad organizzare la sicurezza in questi luoghi,
in modo che le mamme non rimangano in carcere, perché il problema concreto è
proprio quello. Alcuni carceri hanno delle zone un po’ più adeguate ai bambini,
ma sono lontanissime dagli standard di igiene di cui hanno bisogno i neonati.
Altri, addirittura non ce l’hanno. Ad un certo punto, a tre anni, questi
bambini vengono fuori: al compimento del terzo anno, il giorno dopo il
compleanno, questi bambini debbono per forza uscire dal carcere. Il problema è
peggiorato dal fatto che, quando parliamo di mamme che non hanno il permesso di
soggiorno, questi bambini al terzo anno di vita vengono ‘istituzionalizzati’,
quindi affidati a famiglie, vengono inseriti negli asili, eccetera. Quando
viene la fine della pena, per la mamma c’è l’espulsione dall’Italia immediata:
non c’è neanche un passaggio che valuti se questa donna nel frattempo si sia inserita,
sia riuscita ad inserirsi nel lavoro, abbia trovato chi l’accoglie ... Perché
in questo caso,con il bambini all’asilo e la mamma con una possibilità di
accoglienza, si potrebbe valutare, invece dell’espulsione, l’inserimento nella
nostra società. Mentre oggi il giudice, per legge, se trova una persona senza
permesso di soggiorno, una volta scontata la pena non può fare altro che farla
andar via dall’Italia. Quindi, i bambini o restano istituzionalizzati in Italia
o, dopo essere stati appena inseriti nella società, si ritrovano catapultati in
un’altra realtà, via con la propria madre e c’è da chiedersi dove vanno.
D. – Allora, quale potrebbe
essere la soluzione di questa situazione?
R. – Le soluzioni possono essere
molte. Sono quelle di far scontare la pena, come abbiamo detto, in luoghi
alternativi al carcere o altre soluzioni intermedie: migliorare la vita di
questi bambini, se proprio sono costretti a restare nel carcere. Questo
problema deve risolverlo chi ha il potere di risolverlo, chi ha le conoscenze
per risolverlo.
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LA CAPPELLA DELLE
RELIQUIE DELLA BASILICA DI SANTA CROCE IN GERUSALEMME,
A ROMA, SI VESTE DI NUOVA LUCE. NEL RESTAURATO
“SANTUARIO DELLA CROCE”
SI CONTEMPLA IL MISTERO DELLA PASSIONE DI CRISTO
- Intervista con don Simone Fioraso -
Per
secoli meta di pellegrini che andavano alla ricerca dei luoghi dove si potesse
sentire la forza e misericordia di Dio, l’antica basilica di Santa Croce in
Gerusalemme, in Roma, acquista in questa Settimana Santa della Passione un
senso ancora più profondo. Grazie ad un restauro durato oltre 2 anni la
“Cappella delle Reliquie” della basilica romana offre ai fedeli l’occasione di
contemplare uno dei misteri più intensi del Cristo: quello della Passione. E’
in questo luogo che la sofferenza del Figlio di Dio si palesa come sofferenza
di tutti gli uomini. Il servizio è di Rita Anaclerio:
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C’è un luogo a Roma dove storia
e leggenda si intrecciano. E’ in questa antica chiesa romana che da oltre un
millennio vengono custodite alcune delle più importanti reliquie della Passione
di Cristo, deposte in questo sacro luogo da Sant’Elena, madre dell’imperatore
Costantino. A lei, infatti, la tradizione attribuisce il ritrovamento sul Calvario
della Croce di Gesù, una parte della quale la donna portò a Roma, insieme con
la tavoletta di legno che riporta l’imputazione di Pilato nei confronti di
Gesù, un chiodo e una gran quantità di terra del Calvario con la quale cosparse
il pavimento della Cappella successivamente a lei dedicata. Ma per capire
pienamente il significato di queste reliquie è necessario comprendere la figura
della Santa imperatrice, simbolo di conversione e spirito interreligioso, il
cui viaggio da Gerusalemme a Roma ha un alto valore spirituale, come ci spiega
il priore dell’antica basilica romana, Don Simone Fioraso:
“Non è il viaggio di una vecchia imperatrice, ma è quello di una donna di
fede che cerca disperatamente la testimonianza della Passione del suo Dio, di
colui che ha cercato. E’ interessante come l’affresco di Antoniazzo Romano, che
noi abbiamo in Basilica, raffiguri questo viaggio di Elena, l’incontro con
Giuda l’ebreo, l’ebraismo, l’incontro con l’imperatore Eraclio che era
imperatore di Gerusalemme, quindi il cattolicesimo, e il giovane moro che con
la spada difende la Croce che entra in Gerusalemme. Quindi, un dialogo
interreligioso già iniziato ai tempi di Alessandro VI. E in questo viaggio di
Elena leggiamo chiaramente il cuore di una donna che ha ritrovato qualcosa di
importante, di fondamentale nella sua vita”.
E questo “Santuario della
Croce”, come Giovanni Paolo II ha definito l’antica Basilica durante la visita
pastorale del 25 marzo 1979, da secoli accoglie i pellegrini svelandosi luogo
dedicato alla celebrazione di un mistero della fede: quello della Passione di
nostro Signore. E l’idea sottesa a tutta la composizione architettonica della
Basilica è quella del pellegrinaggio al Calvario, meditando il mistero della
morte di Gesù, tema efficacemente espresso dai simboli lungo il percorso. Don
Fioraso:
“Io ricordo che
quando sono venuto a Santa Croce non capivo perché questa Basilica era buia;
oggi nel restauro abbiamo riscoperto i suoi colori molto belli, molto luminosi
e in questa luce noi vediamo il cammino del Calvario. L’architetto Di Fausto,
nell’attuale Cappella delle Reliquie, ha messo oltre alla Via Crucis del
Nicolini, anche il testo del canto dell’Inno del Venerdì Santo che inneggia
alla Croce. E nello stesso tempo, prima di salire, la grande scalinata presenta
le tre cadute di Gesù, poi il vestibolo e poi in fondo il ‘sancta sanctorum’,
il luogo dove ognuno di noi adora la Passione del Signore”.
Varcare quindi la soglia della
Basilica di Santa Croce significa sostare a contemplare la Croce di Cristo e il
significato del dolore umano, come racconta Don Fioraso:
“Cristo,
attraverso la Passione, giunge alla Risurrezione. Come questa Basilica, che
prima era tetra e poi ha rivelato colori molto, molto vivaci che sono i colori
della gioia, oggi noi contempliamo che molta gente che viene ad adorare le
reliquie, pur arrivando senza grande partecipazione, sostando davanti all’atto
d’amore di Cristo si apre profondamente alla comprensione del mistero
dell’amore di Cristo”.
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“PADRE MATTEO RICCI. L’EUROPA ALLA CORTE DEI
MING”, È IL TITOLO DELLA MOSTRA, AL VITTORIANO A ROMA, DEDICATA AL GESUITA
MISSIONARIO IN CINA. PER LA GRANDE AFFLUENZA DI PUBBLICO LA MOSTRA E’ STATA
PROLUNGATA FINO A MAGGIO
- Intervista con Filippo Minini -
“Padre Matteo Ricci. L’Europa alla corte dei Ming”
è il titolo della mostra promossa a Roma al Vittoriano. Presenta al grande
pubblico la figura e l’opera del missionario gesuita noto in Cina per avere
vissuto 10 anni alla corte dell’imperatore Wanli. Illustra l’itinerario
percorso da Matteo Ricci da Macerata, sua città natale, a Pechino dove morì nel
1610 e dove ancora oggi esiste la sua tomba. Visto il suo successo,
l’iniziativa è stata prolungata fino a maggio. Il servizio di Tiziana Campisi:
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I cinesi lo conoscono con il
nome di Li Madu Oloxitai e quale maestro occidentale che ha introdotto nella
Cina dei Ming la teologia, la filosofia, le arti e le scienze dell’Europa. Missionario
della Compagnia di Gesù, Padre Matteo Ricci, marchigiano vissuto tra il XVI e
il XVII secolo, nella storia della Chiesa è stato il primo europeo ad assimilare
abitudini e costumi del Paese del drago e ad iniziare un’inculturazione dei
valori cristiani che Giovanni Paolo II ha additato diverse volte quale esempio
per la presente e futura evangelizzazione.
La mostra illustra la
personalità poliedrica del religioso che tradusse in cinese la geometria di
Euclide e che si interessò di astronomia e cartografia. L’esposizione offre
anche uno sguardo alla Cina del Cinquecento e del Seicento. Inedito il ritratto
di Matteo Ricci, realizzato da Andrea Sacchi, accanto al noto olio su tela,
dipinto alla morte del gesuita, dal confratello Pereira. E tra i manoscritti
l’autografo del De Amicitia in cinese e, in italiano, l’opera più nota
di Matteo Ricci. Ma qual è stato il contributo che questo missionario ha dato
nei rapporti tra Oriente ed Occidente? Filippo Minini, curatore della mostra:
“Prima di Ricci
e fino a Ricci la Cina e l’Europa si ignoravano quasi completamente. Gli
europei avevano tanta poca conoscenza della Cina che nelle loro carte geografiche
la consideravano un Paese diverso dal Catai di Marco Polo. Fu Ricci poi a
scoprire che il Catai e la Cina erano lo stesso Paese e a chiedere ai
cartografi occidentali di rifare i mappamondi. Dopo Ricci e con Ricci i
rapporti furono invece approfonditi, stabiliti e, nel nome di Ricci, solidi
ancora oggi”.
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20 marzo 2005
L’UNITALSI IN 2.000 PIAZZE
ITALIANE PER DIFFONDERE IL VALORE DELLA SOLIDARIETA’. IN OCCASIONE DELLA
DOMENCA DELLE PALME, L’OFFERTA DI UNA PIANTINA DI ULIVO FARA’ CONOSCERE A TUTTI
I PASSANTI LA MISSIONE DELL’ASSOCIAZIONE
ROMA. = “Insieme sulle strade
della solidarietà”. E’ questo l’invito che l’UNITALSI da ieri sta rivolgendo in
duemila piazze italiane per la quarta edizione della Giornata Nazionale
promossa dalla stessa organizzazione. Con l’offerta del simbolo della pace, una
piantina di ulivo, si presentano a tutti i passanti i tanti progetti divenuti
nel tempo la missione quotidiana dell’associazione. Fra questi, ad esempio, i
pellegrinaggi ai santuari mariani, l’attenzione dedicata ai bambini malati e
alle loro famiglie, l’aiuto ai disabili e a chi è solo per la partecipazione
alla vita sociale. Un invito, appunto, a percorrere insieme le strade della
solidarietà “per poter aiutare sempre più persone a ritrovare la dignità della
propria esistenza”. Come nelle precedenti edizioni, anche quest’anno
l’iniziativa dell’UNITALSI e della può contare sulla fattiva collaborazione
della Polizia di Stato, la cui banda ha organizzato a mezzogiorno un concerto
in piazza del Popolo a Roma. (E. B.)
INCENTIVARE IL DIALOGO CON IL
MONDO ISLAMICO ATTRAVERSO UNA MIGLIORE
CONOSCENZA DEI SUOI VALORI E
DELLE SUE ATTUALI PROBLEMATICHE.
CON QUESTO OBIETTIVO, LA
FEDERAZIONE DELLE CONFERENZE EPISCOPALI DELL’ASIA HA LANCIATO, NEI GIORNI
SCORSI, UNA CAMPAGNA INFORMATIVA SULL’ISLAM
RIVOLTA AGLI STUDENTI CATTOLICI
MANILA.
= A Pasay City, nelle Filippine, in un recente seminario organizzato dalla Federazione
delle Conferenze episcopali dell’Asia (FABC), sono stati discussi gli obiettivi
della campagna informativa sul mondo islamico. Dall’incontro, cui hanno
partecipato anche esponenti musulmani, è emerso come l’immagine che associa
oggi i musulmani alla violenza, al fanatismo e al terrorismo sia fuorviante
perché non tiene conto della complessa realtà medio-orientale. Una realtà in
cui alcuni comportamenti sono spesso determinati più dalla disperazione e dalla
frustrazione che da dettami religiosi. Di qui la necessità avvertita dai
partecipanti di una maggiore “sensibilità” delle Chiese cristiane verso queste
problematiche. In questo senso si è espressa, tra gli altri, Virginia Saldanha,
segretario esecutivo dell’Ufficio per i laici della FABC, che ha sottolineato
come “le Chiese cristiane debbano accogliere la sfida di diventare mediatrici
di pace nel mondo presente”. Dunque, contro l’attuale strategia della “guerra
al terrorismo”, i partecipanti hanno sottolineato l’importanza cruciale del
dialogo interreligioso e del riconoscimento degli elementi positivi delle altre
religioni nello spirito dei valori cristiani della giustizia. (L. Z.)
SIGLATO NEI GIORNI SCORSI A BRASILIA UN ACCORDO FRA
BRASILE, BOLIVIA ANGOLA
E MOZAMBICO PER COMBATTERE PIU’ EFFICACEMENTE LA
MALNUTRIZIONE INFANTILE.
I QUATTRO PAESI, SOTTO L’EGIDA DEL PAM, SI IMPEGNANO
A COOPERARE
PER RISOLVERE IL PROBLEMA DELLA FAME
BRASILIA. = A margine della seconda sessione annuale
di lavori del Programma alimentare mondiale (PAM) delle Nazioni Unite, conclusasi
a Brasilia venerdì scorso, Brasile, Bolivia, Angola e Mozambico hanno siglato
un’intesa per combattere più efficacemente la malnutrizione infantile. Anche
grazie al contributo economico della Germania, l’accordo vede i quattro Paesi
firmatari “operare congiuntamente per risolvere il problema della fame”, ha
riferito Catherine Bertini, sotto-segretario del Programma alimentare mondiale
(PAM) delle Nazioni Unite. Secondo dati del Fondo ONU per l’alimentazione e
l’agricoltura (Fao), sono oltre 800 milioni le persone che soffrono di
malnutrizione nel pianeta. In particolare, 300 mila bambini sotto i cinque anni
di età in Angola, 400 mila in Bolivia e oltre un milione in Mozambico. In Brasile,
sebbene non si dispongano di statistiche dettagliate sul numero dei minori
denutriti, si stima che almeno 40 milioni di persone, su una popolazione totale
di circa 180 milioni di abitanti, non ricevano un’alimentazione adeguata. Al
ritmo con cui si sta procedendo per fare fronte all’emergenza – sottolineano le
organizzazioni non governative – sarà quanto meno improbabile raggiungere i
cosiddetti “Obiettivi del Millennio” fissati dalle Nazioni Unite. In particolare,
sono sempre più lontani quelli di dimezzare, entro il 2015, la percentuale di
persone al mondo che soffrono la fame e che non hanno accesso all’acqua potabile.
(E. B.)
SI CONCUDE OGGI PRESSO
L’UNIVERSITA’ DI ANCONA IL CONVEGNO
“L’AFRICA IN AIUTO
DELL’OCCIDENTE”. ALL’INCONTRO DIVERSI ESPONENTI
DELLA SOCIETA’ CIVILE AFRICANA E
ITALIANA HANNO DISCUSSO
LE PROSPETTIVE POLITICHE E SOCIALI
DEL CONTINENTE AFRICANO
ANCONA.
= Si conclude oggi il convegno “L’Africa in piedi in aiuto all’occidente” in
corso da venerdì presso l’Università di Ancona. All’incontro, organizzato in collaborazione
con il Centro Missionario locale e le comunità africane delle Marche, hanno
partecipato numerosi esponenti della società civile africana e italiana. Nella mattinata conclusiva, Thabinga Shope-Linney,
dirigente sudafricana del Nepad ha illustrato le linee di un possibile sviluppo
tutto africano basato sul principio di unità nazionale per contare di più, per
uscire dalle emergenze e per essere davvero indipendente. “Questo di Ancona è uno
dei pochi incontri in cui gli italiani anziché parlare, ascoltano gli africani”
aveva ricordato ieri Eugenio Melandri, coordinatore nazionale della campagna
“Chiama l'Africa”, impegnata con altri organismi nel proporre un’immagine del
continente diversa da quella tradizionalmente diffusa dai media. Secondo Albert
Tevoedjré, sociologo ed economista del Benin, la “negritudine” o, se si vuole, “nigrizia”,
con il suo intrinseco contenuto di solidarietà e, quindi, di scoperta della parità
di diritti e doveri sociali può costituire un efficace antidoto contro una
visione umiliante dell’Africa e degli africani. Una corrente di pensiero questa
che è già stata capace di sostenere, in termini filosofici e politici, alcune
delle più importanti manifestazioni di indipendenza nazionale africana. E la
docente Anne-Cècile Robert ha avanzato una prospettiva “afro-ottimista” di un
futuro non lontano in cui sarà l’Africa ad aiutare l'Occidente. Di
autosufficienza alimentare ha poi parlato Saliou Sarr, Presidente della
Federazione degli agricoltori di riso del Senegal e l’antropologo italiano
Bernardo Bernardi ha ribadito per gli africani la necessità di “riconquistare
il proprio sapere”.
oltre 8mila persone al giorno sono state costrette,
NEL 2004,
ad abbandonare le loro case e cercare rifugio altrove
senza TUTTAVIA
poter lasciare il proprio Paese. E’
IL DRAMMA CHE EMERGE
DAL
“PROGETTO GLOBALE PER GLI SFOLLATI”
PRESENTATO
VENERDI’ SCORSO A GINEVRA
GINEVRA. =. E’ il fiume
inarrestabile degli sfollati, 3 milioni di persone nel 2004, di quanti fuggono
da guerre civili e violazioni dei diritti umani. E’ il gruppo di persone
vulnerabili “tra i più vasti e più trascurati del mondo”, afferma il “Global
Idp Project” (Progetto Globale per gli sfollati) reso noto ieri a Ginevra. Il
rapporto, elaborato dal Consiglio norvegese dei rifugiati (Cnr), stima che il
numero totale di sfollati ha raggiunto i 25 milioni e che il fenomeno concerne
50 Paesi di tutti i continenti. “Globalmente, la crisi degli sfollati non ha
registrato l’anno scorso nessun segno di miglioramento tangibile”, ha
commentato Elisabeth Rasmusson, responsabile del “Global Idp Project”. Secondo
l’esperta, sebbene nel 2004 centinaia di migliaia di persone abbiano potuto
fare ritorno alle loro case, questo sviluppo positivo è stato “oscurato” dalla
spirale di violenza e da movimenti in massa di persone in fuga in luoghi come
il Darfur (Sudan). L’Africa – spiega il rapporto – è il continente maggiormente
colpito dal fenomeno: ne ospita, infatti, circa 13 milioni pari a più della
metà dei “rifugiati interni” del pianeta. Gli altri Paesi con grandi
popolazioni di sfollati sono Colombia (oltre 3,3 milioni), Repubblica
Democratica del Congo (2,3 milioni), Uganda (2 milioni) ed Iraq (oltre un milione).
Contrariamente ai profughi, che sono riusciti ad attraversare un confine internazionale,
le persone sfollate non possono contare su un sistema internazionale di
protezione e d’assistenza. Così, molti sfollati sono esposti alla malnutrizione,
alle malattie e alla violenza. I loro Governi sono raramente disposti o in
grado di fornire aiuti. In conclusione – afferma il rapporto – i tentativi
della comunità internazionale di colmare queste carenze restano “deboli”. (E. B.)
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20 marzo 2005
- A cura di Salvatore Sabatino -
L'esercito libanese ha
rafforzato le misure di sicurezza nel Paese in seguito all'esplosione dell'ordigno che nella notte tra venerdì e
sabato ha ferito a Beirut sette persone.
Intanto l'opposizione libanese, schierata su posizioni anti-siriane, ha
rifiutato ieri sera l'invito del presidente Emile Lahoud ad aprire immediatamente
colloqui intesi a porre fine alla crisi politica che paralizza il Paese. Resta
certo, di fatto, il futuro ritiro delle truppe siriane. Ma dopo tanti anni di
permanenza in Libano, con il ritiro dei propri militari c’è il rischio che
Damasco lasci qualcosa di irrisolto? Giancarlo La Vella ne ha parlato con Antonio
Ferrari, inviato speciale del Corriere della Sera, raggiunto telefonicamente
nella capitale siriana:
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R. – Sì, perché la
Siria è stata presente in Libano per tanti anni. Non dimentichiamo che nel ’76
fu chiamata proprio dai cristiani per essere protetti; nella seconda parte degli
anni ’80 fu chiamata dalla Lega araba per riportare stabilità a Beirut dove si
viveva di sequestri di persona, dove c’era una situazione, francamente,
intollerabile; poi c’è rimasta fondando radici. E’ vero che ci sono delle ragioni
storiche di legami profondi tra questi due Paesi, legami familiari, legami economici,
però c’è da dire che, in fondo, questa presenza, da un certo punto di vista era
stabilizzante, perché evitava che si riproponessero i pericoli della guerra
civile, ma dall’altra era una cappa soffocante proprio per la vita stessa dei
libanesi. Ora abbiamo una situazione estremamente confusa, con un Parlamento
che rappresenta, fino alle prossime elezioni, una maggioranza che è
filo-siriana, con un’opposizione che mette insieme i cristiani maroniti, i
drusi e i sunniti, ai quali apparteneva l’ex primo ministro Hariri. E poi
abbiamo l’incognita sciita con la presenza dell’hezbollah che è partito
politico ma è anche un movimento di resistenza militare e, anzi, gli americani
lo considerano un movimento terroristico proprio per gli attacchi fatti contro
Israele. Ora, un’uscita rapida viene accolta con grande soddisfazione dalla Comunità
Internazionale ma può creare una tensione, lasciare un vuoto che altri
potrebbero cercare di riempire ricorrendo alla violenza. Ecco, se si mettono
insieme tutti questi elementi, ci si rende conto che il fatto che la Siria si
ritiri è positivo, ma quell’incognita deve far riflettere.
D. – Ferrari, che cosa perderà,
invece, la Siria lasciando totalmente il Libano?
R. – La
Siria, in questo momento, è con le spalle al muro. Che sia responsabile o non responsabile
diretta dell’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri, per l’immagine del
mondo è colpevole e ora bisognerà vedere che cosa accadrà. La Siria non ha alternative:
deve far rientrare questi soldati e deve farli rientrare in un Paese che ha una
crisi economica piuttosto seria. Deve quindi trovare il modo di inserirli nella
società civile e dare, finalmente, quell’impulso molto determinato alle Riforme
che finora non sono state fatte. Questo regime, che è stato ingessato per anni,
ha bisogno di un rilancio e anche di cambiare tante cose, proprio per offrire
un volto più accettabile all’estero.
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Ritorna a salire la tensione in Medio
Oriente. Tre soldati e un poliziotto israeliani
sono stati feriti da un palestinese che ha sparato più volte, nella Striscia di
Gaza. L'episodio interrompe il cessate il fuoco dichiarato il mese scorso da entrambe
le parti. L’attacco è stato rivendicato della Brigate dei martiri di al-Aqsa.
Un palestinese è, invece, rimasto gravemente ferito vicino alla strada che
collega Gerusalemme a Betlemme, in Cisgiordania, durante un tentativo di
infiltrazione. Lo hanno riferito fonti militare israeliane.
Era egiziano il kamikaze che
ieri ha compiuto l'attacco contro un teatro frequentato da stranieri a Doha, in Qatar. Nella deflagrazione ha perso
la vita un cittadino britannico. Il ministro degli interni del Qatar ha
identificato l’uomo come Ahmad Abdullah Ali, proprietario dell’auto con cui è
stato compiuto l'attentato. L'attacco contro il teatro della scuola britannica
della capitale, oltre alla morte dell'attentatore e del britannico, ha causato
il ferimento di altre 12 persone.
Si terranno il 18 settembre
prossimo le elezioni parlamentari in Afghanistan, le prime nel Paese
centro-asiatico dalla caduta del regime dei Talebani. Ad annunciarlo durante
una conferenza stampa Bismillah Bismil, capo della Commissione Elettorale Indipendente
Congiunta, organismo misto di rappresentanti del governo afghano e delle Nazioni
Unite. La tornata elettorale era stata più volte rinviata per motivi di
sicurezza.
Oltre duecento persone sono
morte a causa delle piogge torrenziali che si sono abbattute nei giorni scorsi
in varie località dell'Afghanistan. Migliaia sono le case distrutte dall'acqua.
L'area più colpita è quella di Deh Rawud, nella provincia centrale di Uruzgan e
le province occidentali di Farah ed Herat.
E’ salito a un morto e 400
feriti il bilancio della scossa di magnitudo 7 della scala Richter che ha
colpito l'isola di Kyushi, nel sud del Giappone. Un allarme tsunami è stato immediatamente
diramato dalle autorità delle prefetture di Nagasaki e Fukuoka, ma è poi rientrato
dopo circa un'ora. L'epicentro del violento sisma, che ha danneggiato centinaia
di edifici e costretto oltre 700 persone ad abbandonare le proprie abitazioni,
è stato localizzato a largo di Fukuoka.
Stati Uniti ancora spaccati
sulla vicenda di Terry Schiavo, la donna di 41 anni che vive da 15 in stato
vegetativo e alla quale venerdì è stato bloccato il tubo dell'alimentazione. Il
Congresso di Washington dovrebbe approvare, nelle prossime ore, la legge “salva
Terry”, sotto la spinta dei movimenti religiosi e conservatori. Il presidente
George W. Bush, che progettava di trascorrere buona parte della settimana di
Pasqua nel ranch di Crawford in Texas, è pronto a rientrare nella capitale
federale per firmare il provvedimento.
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