RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLIX n.
70 - Testo della trasmissione di venerdì 11
marzo 2005
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
IN PRIMO PIANO:
Le
religiose italiane riunite a convegno a Roma: intervista con suor Carla
Barberini
CHIESA E SOCIETA’:
La Conferenza episcopale
degli Stati Uniti lancia una campagna contro la pena di morte
In Messico, il
cardinale Crescenzio Sepe sottolinea l’urgenza della missione “ad gentes”
Si è chiusa mercoledì a
Varsavia la plenaria della Conferenza episcopale polacca
Non si esaurisce la solidarietà
per le popolazioni investite lo scorso 26 dicembre dallo tsunami
Esce alla stampa “La mia
baracca”, di Giorgio Cosmacini: è la storia della Fondazione Don Gnocchi.
In Iraq è salito
a 50 morti il bilancio delle vittime dell’attentato di ieri a Mossul. Anche
alcuni bambini tra le vittime di abusi nel carcere di Abu Ghraib
Il premier libanese
avvierà lunedì prossimo i colloqui per la formazione di un governo di unità
nazionale ma il tentativo si preannuncia difficile
Rinviata la data di avvio
dei negoziati di adesione della Croazia all’Unione Europea.
11 marzo 2005
IL PAPA AL POLICLINICO
GEMELLI CONCELEBRA LA MESSA
CON I VESCOVI DELLA
TANZANIA, GIUNTI PER LA VISITA AD LIMINA,
E LI ESORTA A DIFENDERE
LA FAMIGLIA
E A PROMUOVERE IL
DIALOGO CON I MUSULMANI
Giovanni
Paolo II, avviato ormai verso un completo ristabilimento, sta riprendendo gradualmente
confidenza, sia pure per brevi istanti, con i suoi impegni di Pastore universale.
Questa mattina, al Policlinico Gemelli, il Papa ha potuto incontrare due tra le
massime cariche ecclesiali della Tanzania, e intanto tra i pazienti e i
giornalisti l’attenzione è ormai puntata sull’annuncio delle dimissioni del
Pontefice dall’ospedale, date stamani per prossime anche dal presidente della
Regione Lazio, Storace. Dal Policlinico Gemelli, il servizio del nostro
inviato, Alessandro De Carolis.
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Il Policlinico Gemelli ritrova
ritmi di più tranquilla routine, al sedicesimo giorno di degenza di Giovanni
Paolo II. Se le ultime 48 ore sono state certamente più intense – ricordiamo il
saluto del Papa ai fedeli dalla finestra della sua stanza, mercoledì scorso, e
ieri la diffusione dell’ultimo aggiornamento sulle sue condizioni di salute,
date in costante miglioramento – la cronaca di oggi ha visto finora due soli
momenti di rilievo. Verso le 12, ha fatto visita al Pontefice una piccola ma
importante delegazione di presuli della Tanzania, in questi giorni a Roma per
la loro visita ad Limina: delegazione composta dal cardinale Polycarp
Pengo, arcivescovo Dar es Salaam, e dal presidente della Conferenza episcopale
del Paese africano, il vescovo di Rulenge, Severine Niwemugizi. Entrambi i
presuli hanno partecipato alla Messa celebrata da Giovanni Paolo II, prima di
lasciare l’ospedale.
In precedenza, era giunto al
Gemelli anche il presidente della Regione Lazio, Francesco Storace. La sua
visita ha seguito di pochi giorni quella degli altri due responsabili
dell’amministrazione locale: il sindaco di Roma, Veltroni, e il presidente
della Provincia, Gasbarra. “Mi hanno riferito che va tutto bene e che il Papa è
prossimo a uscire”, ha detto Storace ai giornalisti, di ritorno dal 10.mo piano
del Policlinico, dove il governatore del Lazio si è intrattenuto con il segretario
personale del Pontefice, mons. Stanislao Dziwisz.
Tra le due visite, non è mancato
un po’ di “colore” canoro quando, nella tarda mattinata, un gruppo di una
dozzina di persone provenienti dalla Sicilia ha intonato per circa 20 minuti
dei cori all’indirizzo del Papa, dal piazzale sotto le sue finestre. Intanto,
come è stato possibile verificare, continuano ad arrivare qui al Policlinico
numerose lettere, messaggi e doni per Giovanni Paolo II da tutto il mondo, segno
di un’attenzione e di un affetto sempre vivi per la sua persona.
Dal Policlinico Gemelli,
Alessandro De Carolis, Radio Vaticana.
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Il
sostegno alla famiglia, la lotta alla povertà e all’Aids, il dialogo con
l’Islam e la formazione dei sacerdoti: sono i punti principali del messaggio
consegnato da Giovanni Paolo al Gemelli
ai vescovi della Tanzania in visita ad Limina. Ce ne parla Sergio Centofanti.
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Di fronte ai grandi cambiamenti
della cultura moderna la Chiesa, scrive
il Papa, “è chiamata oggi a dare una speciale priorità alla cura pastorale
della famiglia”. In questo senso “il mondo può imparare molto” dall’Africa che
pone i valori della famiglia a fondamento delle proprie società. Ma la povertà
mette il Continente in una situazione di debolezza per gli aiuti internazionali
che riceve: così il Pontefice definisce “una pratica ingiusta” il condizionare
“i programmi di assistenza economica alla promozione della sterilizzazione e
della contraccezione”. “Tali programmi – afferma il Papa – sono un affronto
alla dignità della persona e della famiglia” e ad essi bisogna opporre un forte
rifiuto.
Giovanni Paolo II, dopo aver
ribadito il carattere sacro e indissolubile del matrimonio, passa a parlare del
forte impegno della Chiesa nella lotta contro il “terribile flagello dell’AIDS”
che colpisce la Tanzania e gran parte dell’Africa. In particolare il Papa si sofferma sull’aiuto concreto portato
dagli organismi ecclesiali alle migliaia di bambini rimasti orfani in seguito
al virus: quindi sottolinea che le “uniche vie sicure per limitare l’ulteriore
espansione dell’infezione” sono la fedeltà coniugale e l’astinenza.
Il Pontefice esorta poi i
vescovi della Tanzania a porre una cura particolare nella formazione spirituale
dei sacerdoti nei seminari. Quindi elogia la collaborazione tra Stato e Chiesa
nella lotta alla povertà che affligge un così gran numero di persone e invita a
promuovere il dialogo interreligioso soprattutto con i musulmani
dell’arcipelago di Zanzibar: questa è la vera sfida del futuro – scrive il Papa
– lavorare insieme per risolvere i problemi sociali ed economici per mostrare
alle altre nazioni quale armonia “deve sempre esistere tra gruppi religiosi ed
etnici diversi”. Infine Giovanni Paolo II esorta i vescovi tanzaniani ad
evangelizzare la cultura del loro popolo in modo che Cristo parli dal cuore di
queste chiese locali “con una voce autenticamente africana”.
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“L’EUCARISTIA SACRIFICIO”, TEMA
CENTRALE DELLA TERZA PREDICA DI QUARESIMA
ALLA FAMIGLIA PONTIFICIA, TENUTA STAMANI DA PADRE RANIERO
CANTALAMESSA
NELLA CAPPELLA REDEMPTORIS MATER IN
VATICANO
- Servizio di Alessandro Gisotti -
Il Sacrificio di Cristo, evento
centrale nella storia dell’umanità è stato il tema centrale della terza predica
di Quaresima alla Famiglia Pontificia, tenutasi stamani nella Cappella Redemptoris
Mater in Vaticano. Il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero
Cantalamessa si è soffermato sull'Eucaristia alla luce dell’inno Adoro Te
devote, con il commento alla strofa incentrata su “L'Eucaristia
sacrificio”. Il servizio di Alessandro Gisotti:
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“Basta una goccia del sangue di
Cristo per salvare il mondo intero”. Muove da questa frase di San Tommaso la
riflessione di padre Raniero Cantalamessa sul mistero eucaristico. La predica
si sofferma sul pensatore cristiano René Girard, il quale dopo aver sostenuto
che la violenza è intrinseca al sacro, riconosce che il mistero pasquale ha
rotto per sempre l’alleanza tra sacro e violenza:
“Con la
sua dottrina, la sua vita, Gesù smaschera e spezza il meccanismo del capro espiatorio
che sacralizza la violenza facendosi Lui, innocente, la vittima di tutta la
violenza”.
Gesù dunque sconfigge la
violenza. Ma “vince perché vittima”, secondo Sant’Agostino. In Cristo è Dio stesso
che si fa vittima:
“Cristo
ha vinto la violenza non opponendo ad essa una violenza più grande, ma subendola
e mettendone a nudo l’ingiustizia e l’inutilità. Il film di Mel Gibson, se non
altro, ha avuto questo merito di rivelare fino a che punto la violenza si è abbattuta
sulla vita di Cristo”.
Evento centrale nella storia
dell’umanità, il Sacrificio di Cristo cambia la natura stessa del sacrificio.
Padre Cantalamessa mette così l’accento sul binomio amore-espiazione che caratterizza
la Passione di Gesù:
“Le due cose
possono stare insieme. Il peccato è cancellato, lavato, distrutto, in una parola
espiato dal suo contrario che è l’amore, non dalla semplice sofferenza della
morte bruta di Cristo”.
A chi è stato pagato dunque
questo prezzo? Si è diffusa, ha spiegato il predicatore della Casa Pontificia,
l’idea del Padre implacabile. Ma questa è una prospettiva sbagliata:
“Il
Padre non è Colui che aspetta il sacrificio, è Colui che fa il sacrificio.
Quando si dice che non ha risparmiato il proprio Figlio è come dire che non ha
risparmiato se stesso! Il Padre ha fatto Lui il sacrificio, ha fatto il grande
sacrificio di darci il Figlio!”
Cristo si offre liberamente alla
sua Passione. San Bernardo, ha ricordato, sottolinea come “non la morte di
Cristo piacque a Dio Padre, ma la sua volontà di morire spontaneamente per
noi”:
“Dio Padre non
ha richiesto il sangue del Figlio, lo ha solo accettato offertogli! Non aveva
sete di quel sangue ma della nostra salvezza che risiedeva in quel
sangue”.
L’Eucaristia è allora “il
sacramento della non violenza” e ci appare come il “sì di Dio alle vittime
innocenti”, il luogo dove “ogni giorno il sangue versato sulla terra si unisce
a quello di Cristo”. Ha poi evidenziato il nesso inscindibile tra il sangue e
la remissione dei peccati:
“Io
penso che nella Messa, venerabili e cari fratelli, noi abbiamo la possibilità,
ogni giorno, di fare una specie di dialisi delle anime e cioè di farla passare
attraverso questo bagno purificatore del sangue di Cristo”.
Alla
luce delle riflessioni sull’inno “Adoro te devote”, padre Cantalamessa ha chiuso
la sua predica con una viva esortazione:
“Quanto
bene deriverebbe alla comunità ecclesiale intera se tutti ci sforzassimo di
seguire questa via dell’Agnello cessando di far responsabili dei mali, che ci
sembra di vedere nella Chiesa, quelli che la pensano diversamente da noi perché
questo è, al fondo, il meccanismo del capro espiatorio”.
Per nostra fortuna, ha concluso,
“l’Eucaristia non si limita a ricordarci l’esempio di Gesù, ma ci dà anche la
grazia di seguirlo. Egli ha vinto anche per noi e noi possiamo appropriarci
nella fede della sua vittoria sulla violenza”.
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IL CARDINALE POUPARD
PRESENTA UN PROGETTO DI RICERCA
PER SUPERARE LA DIFFIDENZA
TRA SCIENZA E FEDE
“Un
nuovo quadrivio per il terzo millennio”. Così, il cardinale Paul Poupard, presidente
del Pontificio Consiglio della Cultura, ha definito il progetto STOQ, “Scienza,
Teologia e Indagine Ontologica”, presentandone la seconda fase stamani presso
la Sala Stampa della Santa Sede. Il Progetto, uno dei più prestigiosi programmi
di ricerca sul rapporto fra scienza, filosofia e teologia, coinvolge tre
università pontificie romane: Lateranense, Gregoriana e Regina Apostolorum. Il
servizio di Roberta Moretti:
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Più di
30 conferenze pubbliche seguite almeno da 1200 persone, 320 studenti laici e
religiosi, 12 corsi biennali di dottorato, 4 seminari, 2 workshop. Sono i
numeri del progetto triennale STOQ, che mira a superare il pregiudizio
reciproco tra scienza e religione attraverso un dialogo efficace tra discipline
umanistiche e scientifiche. Un progetto concreto che coinvolge l’Università
Gregoriana, impegnata nell’approfondimento della filosofia e delle scienze della
natura, la Lateranense, che ne studia i risvolti antropologici, e l’Ateneo
Regina Apostolorum, per quelli bioetici. Tre realtà diverse a confronto, per contribuire
a una “visione organica del sapere”, secondo le indicazioni di Giovanni Paolo
II nell’Enciclica “Fides et Ratio”. Il cardinale Poupard:
“La mancanza di un’assidua
frequentazione fra scienziati ed umanisti e, soprattutto, fra mondo scientifico
e religioso, ha portato all’incapacità di comprendersi fra questi due mondi e a
generare pregiudizio dall’una e dall’altra parte. Pregiudizio della scienza
verso la religione, vista come residuo di un passato mitico e irrazionale.
Pregiudizio della religione verso la scienza, vista come un tentativo di ridurre
l’uomo e il mondo alla materia in nome di una razionalità ideologizzata e
astratta”.
E
raccogliendo l’eredità della “Commissione di studio del Caso Galileo”, istituita
dal Santo Padre nel 1981, il Progetto STOQ vuole superare questi pregiudizi attraverso
l’insegnamento, la ricerca e attività di divulgazione, dando vita, come ama
definirlo il cardinale Poupard, ad “un nuovo quadrivio per il terzo millennio”.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
Apre
la prima pagina il titolo “Offro le mie preghiere e le mie sofferenze per voi”:
Giovanni Paolo II incontra al Policlinico “Gemelli” due rappresentanti della
Conferenza episcopale ai quali consegna un messaggio per tutti i vescovi della
Tanzania.
Cristo
– si sottolinea con forza nel Messaggio – parli dal cuore delle vostre Chiese
locali con una voce autenticamente africana.
Nelle
vaticane, un articolo di Gianfranco Grieco dal titolo “I religiosi: esempio di
una donazione radicale per la missione ‘ad gentes’”: conclusa in Messico la visita
pastorale del cardinale Crescenzio Sepe.
Nelle
estere, Iraq: attentato suicida a Mossul causa cinquanta morti.
Libano:
s’inaspriscono i toni del confronto tra maggioranza ed opposizione antisiriana.
Nella
pagina culturale, un articolo di Franco Patruno sulle opere dell’artista
Rey-nolds esposte al Palazzo dei Diamanti di Ferrara.
Nelle
pagine italiane, in primo piano la tragica vicenda dell’uccisione di
Nicola Calipari in Iraq; Ciampi a Bush: sentiamo la necessità di trasparenza.
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11 marzo 2005
SILENZIO
E COMMOZIONE, PER RICORDARE LE VITTIME
DELLO
SCORSO ANNO A MADRID
- Con
noi, mons. Jesús Esteban Catalá Ibáñez e Josto Maffeo -
Dal
2004, l’11 marzo, in Spagna, è sinonimo di terrore. E tutto il Paese si è fermato,
oggi, per ricordare le vittime degli attentati di un anno fa, quando a Madrid
il terrorismo di matrice islamica fece esplodere bombe su quattro treni: furono
192 i morti e 1.500 i feriti. Particolarmente toccanti le commemorazioni di
questa mattina: a mezzogiorno, milioni di persone hanno osservato cinque minuti
di silenzio. Ci riferisce, da Madrid, Mónica Uriel:
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A
Madrid, nel Parco del Retiro, re Juan Carlos e la regina Sofia hanno inaugurato
il Bosco degli Assenti, formato da 192 cipressi ed olivi, ed hanno deposto una
corona di fiori. Erano presenti il capo del governo, José Luis Rodríguez Zapatero,
il segretario dell’ONU, Kofi Annan, il re del Marocco, Mohamed VI. Tutti hanno
osservato cinque minuti di silenzio. Non ci sono stati discorsi nella
cerimonia, che è finita con la musica di violoncello del catalano Pau Casals.
(musica)
Alla
stessa ora, milioni di persone in tutto il Paese si sono fermate per cinque minuti.
Davanti alla Moncloa c’erano i ministri; davanti ai Comuni, i sindaci e
migliaia di cittadini; davanti alle università ed alle scuole, gli studenti.
Piene e silenziose le strade. Anche i musulmani della moschea di Madrid e di
altre moschee del Paese si sono uniti ai cinque minuti di silenzio. Ed i treni,
obiettivo dei terroristi un anno fa, si sono fermati per 5 minuti. Nelle
stazioni attaccate – Atocha, Santa Eugenia ed El Pozo – l’anniversario è stato
ricordato in un modo molto speciale. Sono tornati i fiori, le candele, i
messaggi. Familiari delle vittime sono andati ad Atocha. Tante lacrime, tanti
ricordi.
(campane
a lutto)
Alle
7.37, proprio alla stessa ora della prima bomba che un anno fa esplose alla
stazione di Atocha, si sono sentiti i rintocchi delle campane delle 600 chiese
di Madrid. Così è cominciata la giornata di lutto nazionale.
Da
Madrid, Mónica Uriel, per la Radio Vaticana.
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Ad un
anno di distanza, dunque, nel Paese molte ferite sono ancora aperte. Andrea Sarubbi
ne ha parlato con il vescovo di Alcalá de Henares, mons. Jesús Esteban Catalá
Ibáñez:
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R. – In gran parte, le ferite
sono guarite, ma ne rimangono alcune. Le più profonde sono quelle delle
famiglie che hanno perso i loro cari, mentre in altre famiglie ci sono stati
feriti - in tutto, più di 1.500 - alcuni guariti ed altri ancora in ospedale.
Queste sono le ferite fisiche e psichiche, a livello individuale. Poi ci sono
le ferite “sociali”, soprattutto perché si vive con la minaccia di un’azione
terrorista sempre possibile: è un timore che nessuno riesce a togliersi di
dosso. Ad un livello più vasto, più ampio, rimane la ferita di un terrorismo
che si sente “internazionale”. Gli stessi governi sono costretti a prendere
atto della fragilità delle proprie strutture...
D. – Secondo Lei, è cresciuta in
questo anno una coscienza comune nella società spagnola, oppure l’11 marzo ne
ha acuito le divisioni?
R. – È cresciuta la coscienza di
solidarietà e di fraternità. Peccato che la causa di ciò sia stato un evento
così difficile e crudo, così duro… però, l’11 marzo ha fatto crescere la solidarietà
tra le persone, la voglia di pace: per motivi umani, religiosi, cristiani… per
tanti motivi, insomma, questa coscienza è cresciuta.
D. – La Spagna ha dimostrato una
maturità politica nella risposta al terrorismo. In quest’anno che è appena
trascorso, ha cercato spesso il dialogo, per esempio con l’Islam, anziché lo
scontro...
R. – La Spagna ha dimostrato una
maturità che forse non ci aspettavamo nemmeno noi. Due giorni dopo l’attentato
ci sono state le elezioni, che si sono svolte nella normalità. Poi, i vari
partiti politici hanno creato insieme una commissione di studio per ricercare
la verità. Inoltre, sul piano sociale, non c’è stato un rifiuto contro le
persone di origine araba e di fede musulmana che vivono da noi; al contrario,
sono state create addirittura nuove leggi per una migliore accoglienza degli
immigrati. Infine, si sta lavorando insieme ad altri Stati per un dialogo migliore
ed una migliore collaborazione di fronte ad un terrorismo che -come tutti
sappiamo - non è di una nazione, ma è internazionale.
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Le
conseguenze dell’11 marzo 2004 si sono viste, in Spagna, anche sul piano politico.
Ancora al microfono di Andrea Sarubbi, il corrispondente a Madrid del
Messaggero, Josto Maffeo:
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R. – Quello appena trascorso è
stato indubbiamente un anno che ha registrato certi cambiamenti, a cominciare
dall’inattesa svolta politica, provocata in parte anche da quel che accadde
l’11 marzo 2004 e dalla pessima gestione che ne fece il governo Aznar, nei tre
giorni che precedettero le elezioni politiche. Quel voto ha rappresentato una
svolta, perché Zapatero ha dato un’impronta diversa. Per esempio, si è allontanato
dagli Stati Uniti, si è ribellato all’unilateralismo, ha fatto addirittura
proselitismo perché non solo la Spagna uscisse - come ha fatto -con le sue
truppe dall’Iraq, ma ne uscissero anche altri Paesi. In questo anno, Madrid si
è avvicinata molto di più a Berlino e a Parigi. Ma è una Spagna che sta registrando
anche trasformazioni interne, e con non pochi problemi...
D. – Un anno fa, la Spagna si
scoprì all’improvviso bersaglio del terrorismo. Ci si sente ancora?
R. – Io direi che la Spagna
scoprì un altro tipo di terrorismo, perché avevamo già alle spalle circa 900
morti e migliaia di feriti provocati dai separatisti baschi dell’ETA. Tant’è
vero che, nelle prime ore di quella mattinata dell’11 marzo 2004, guardammo
tutti verso il nord. Però, a mio parere, questo è un Paese che non vive in modo
traumatico le cose; le segna, le annota, le soffre, ma ha voglia di reagire.
Per cui non vivrà a lungo nel terrore.
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LE RELIGIOSE ITALIANE RIUNITE IN UN CONVEGNO A
ROMA:
VOGLIONO TESTIMONIARE L’AMORE DI GESU’ IN MEZZO
ALLA GENTE.
L’ITALIA ORMAI E’ TERRA DI MISSIONE
- Intervista con suor Carla Barberini -
E’ iniziato ieri a Roma, presso la Pontificia Università Urbaniana, un
Convegno nazionale missionario per religiose, promosso dall’USMI, l’Unione
Superiore Maggiori d’Italia, e dalla Pontificia Unione Missionaria, sul tema:
“Chiamate a ridare speranza al mondo”. I lavori si concludono domani. Giovanni
Peduto ha intervistato l’organizzatrice del Convegno, la suora canossiana Carla
Barberini:
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D. - Cosa fanno le religiose per
ridare speranza al mondo?
R. – Cercano di essere più
radicali per far vedere che veramente hanno incontrato Gesù che è una Persona
viva, e vivere gioiosamente questo incontro con il Signore che è il Signore di
tutti e vuole portare tutti al Padre.
D. – Di cosa ha bisogno oggi il
mondo per avere più speranza?
R. – Di credere che siamo figli
di Dio. Ritornare alla fede e non lasciarsi abbandonare a sé stessi, al
benessere o alle difficoltà del mondo.
D. – Quali sono, oggi, le
principali difficoltà che incontrate voi religiose, nel portare la vostra
testimonianza al mondo?
R. – L’indifferenza della gente
per la quale sembra che Dio non esista più, anche se in fondo al cuore sentono
questo grande bisogno di avere qualcuno che li sostenga e li aiuti nelle
difficoltà.
D. – In cosa deve cambiare la
Chiesa per fare arrivare meglio il messaggio di Gesù alla gente di oggi?
R. – Non aspettare che la gente
vada in chiesa, non accontentarsi solo di quelli che vanno a Messa, ma andare
lei stessa in mezzo alla gente e gridare dai tetti la Parola di Dio.
D. – Dove sono maggiormente
attive le religiose?
R. – Tra i più poveri, tra gli
emarginati, nel silenzio, lavorano, penetrano nella povertà di oggi.
D. – Una sua esperienza
personale?
R. – Soprattutto, ho visto negli
ammalati che tante volte sono lasciati soli: basta una parola di fede, di
speranza che tutta la loro vita cambia, specialmente i malati terminali, quando
sanno che c’è qualcuno che li aspetta: da Dio siamo venuti, a Dio dobbiamo tornare.
D. – Lei è stata in Giappone: ce
ne parli ...
R. – Il Giappone è una terra con
grandissime difficoltà, perché ciò che vale è l’efficienza. Tutti corrono verso
il benessere. Però per noi missionari, in fondo, si sa che si va per morire,
per impiantare la Chiesa, quindi si è in un certo senso preparati, mentre qui
in Italia, forse, non siamo pronti ad accettare che anche l’Italia è diventata
terra di missione.
D. – Qual è l’obiettivo ultimo
di questo incontro?
R. – E’ quello di far rivivere
in noi lo zelo missionario, lo zelo apostolico e questo incontro è desiderato
da tutte quante perché ci dà una spinta, ravviva in noi il fuoco missionario.
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50 ANNI FA, MORIVA ALEXANDER FLEMING,
SCIENZIATO SCOZZESE SCOPRITORE DELLA PENICILLINA
- Con noi, il prof. Reinhard Gluck -
Una scoperta epocale, quella
della Penicillina, muffa dalle proprietà antibiotiche naturali, efficace in
particolare contro le infezioni delle vie respiratorie, come tubercolosi,
bronchite e polmonite, un tempo letali. Ad effettuarla, nel 1928, lo scienziato
scozzese, Alexander Fleming, Nobel per la medicina nel 1945, di cui oggi
ricorre il 50.mo anniversario della morte. Ce ne parla, nel servizio, Roberta
Moretti:
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“La storia della Penicillina ha
qualcosa di romanzesco e aiuta a illustrare il peso della sorte, della fortuna,
del fato o del destino, come lo si vuole chiamare, nella carriera di ogni
persona”. Con queste parole, Alexander Fleming raccontava la sua scoperta più
grande. Era il 1922, quando una lacrima caduta per caso in una coltura di
batteri, provocandone la distruzione, gli fece intuire la presenza, proprio nel
liquido lacrimale, di una sostanza antibiotica naturale, il Lizozima. Di qui,
l’idea di sfruttarne le qualità per la cura delle malattie infettive, tuttavia
senza ottenere risultati significativi. Dovettero trascorrere sei anni, prima
che un nuovo caso fortuito di contaminazione conducesse lo scienziato alla meta:
questa volta, però, a bloccare la crescita dei batteri fu una muffa del genere
“Penicillum”, potente antibiotico naturale, particolarmente efficace contro le
infezioni delle vie respiratorie, un tempo letali. Una scoperta, secondo il
prof. Reinhard Gluck, virologo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
paragonabile, oggi, a quella di un farmaco che sconfigga il cancro:
“Ancora oggi la casualità ha molta importanza. Questo dimostra che lo
scienziato, lavorando, deve essere sempre pignolo ed attento. Io per caso avevo
un collaboratore nel mio laboratorio che si era formato nel laboratorio di Fleming
ed era il più pignolo di tutti. Aveva imparato ad esserlo alla scuola di Fleming”.
Dovettero trascorrere molti
anni, dal 1928, prima che la Penicillina approdasse all’applicazione clinica,
ma bastò poco perché il nuovo farmaco, usato dai soldati alleati durante la II
guerra mondiale, si diffondesse in tutto il mondo. Ma quale ruolo riveste oggi
la Penicillina nella cura delle malattie infettive? Ancora il prof. Gluck:
“Naturalmente
gli antibiotici al tempo della scoperta hanno aperto tante speranze. Oggi,
purtroppo, tante malattie ed infezioni nonostante siano disponibili tante nuove
sostanze simili alla penicillina non possono più essere usati semplicemente
perché l’evoluzione ha sviluppato tra i batteri le cosiddette resistenze”.
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11
marzo 2005
- A cura di Lisa Zengarini -
WASHINGTON. = A poco più di
una settimana dalla storica sentenza della Corte Suprema, che ha definito incostituzionale
le esecuzioni di detenuti minorenni all’epoca in cui hanno commesso il delitto,
la Conferenza episcopale degli Stati Uniti (USCCB) annuncia il lancio di una
vasta campagna nazionale di sensibilizzazione contro la pena capitale. La
campagna prenderà il via durante la Settimana Santa. La brochure di
presentazione dell’iniziativa spiega che essa viene incontro ai ripetuti
appelli del Santo Padre e degli stessi vescovi americani per l’abolizione della
pena di morte, ricordando che questa pratica contrasta con la dottrina della
Chiesa, secondo la quale essa non è giustificata quando lo Stato dispone di altri
mezzi per tutelare la società. Il pieghevole evidenzia, inoltre, che negli
Stati Uniti la pena capitale è spesso applicata in modo crudele e iniquo, come
indicano, tra l’altro, i numerosi errori giudiziari registrati in questi ultimi
trent’anni. Di qui il dovere morale di abolirla, “non solo per quello che fa
alle persone giustiziate, ma a tutti noi come società”, perché, sottolineano i
vescovi, “non possiamo insegnare il rispetto della vita uccidendo”. La nuova
iniziativa della USCCB giunge in un momento in cui diversi Stati dell’Unione
stanno rivedendo le proprie legislazioni in materia, mentre anche nell’opinione
pubblica statunitense, tradizionalmente favorevole, le posizioni abolizioniste
stanno cominciando a fare breccia. Secondo un recente sondaggio, commissionato
dalla stessa Conferenza episcopale per la sua campagna, il cambiamento più
marcato in questo senso si registra proprio tra i cattolici: oggi meno della
metà si dichiara favorevole alla pena capitale.
IN MESSICO, IL CARDINALE
SEPE SOTTOLINEA L’URGENZA
DELLA MISSIONE “AD GENTES”.
“L’UMANITÀ ATTENDE CON ANSIA LA LUCE E LA VERITÀ
DELL’AMORE DI CRISTO”
CITTA’
DEL MESSICO. = “L’umanità attende con ansia la luce e la Verità dell’Amore di
Cristo”. E’ quanto ha sottolineato il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della
Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, lo scorso 8 marzo in Messico,
nel corso della solenne concelebrazione eucaristica nella Basilica dedicata a
Nostra Signora di Guadalupe. “Molte persone lo conoscono ma vivono nella tristezza,
nel pessimismo o nella disperazione – ha constatato il porporato – milioni di
persone poi neppure hanno sentito parlare di Lui”. “Evangelizzare significa
trasmettere gioia – ha sottolineato il cardinale Sepe nel corso dell’omelia,
pubblicata dall’agenzia Fides –
annunciare la Buona Novella della salvezza a chi vive nella sofferenza e
nella tristezza”. Nelle società odierne, tuttavia, “dominate dal relativismo morale e dalla gioia superficiale di un
futile edonismo”, l’annuncio evangelico sovente si scontra con “il rifiuto e
l’indifferenza”. In questo contesto, ha dichiarato il prefetto della
Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, “capita spesso di avvertire la
tentazione di ‘diluire’ il messaggio di Gesù Cristo e di conformarlo alla mentalità
di questo secolo”. “Agire in questo modo, tuttavia – ha aggiunto il porporato –
significa impedire all’uomo di provare la piena gioia che Gesù promise ai suoi
discepoli”. Ricordando come questo “slancio missionario” abbia avuto origine a
Guadalupe, prima di diffondersi nel mondo, il cardinale Sepe si è detto
consapevole del grande impegno richiesto dal lavoro missionario ed ha affidato
alla Vergine di Guadalupe il cammino della Chiesa e dell’umanità, concludendo:
“Non siamo soli, Gesù Cristo è con noi”. L’apparizione della Vergine di
Guadalupe si colloca agli albori della storia dell’evangelizzazione in America.
La tradizione racconta che ai primi di dicembre del 1531, sulle colline del
Tepeyac, luogo consacrato al culto della dea azteca Tonantzin e destinato ai
sacrifici umani, la Madre di Dio apparve ad un indio, neofito cristiano, Juan
Diego Cuauhtlatoatzin. Si narra che il vescovo eletto del Messico, Zumárraga,
venuto a sapere dallo stesso Juan Diego – proclamato santo da Giovanni Paolo II
il 31 luglio 2002 – dell’apparizione ne avrebbe sollecitato “una prova”
dell’autenticità del messaggio. La Vergine avrebbe chiesto così a Juan Diego di
raccogliere delle rose su quegli impervi monti, che egli avrebbe poi nascosto
nel suo mantello, su cui si sarebbe successivamente impressa l’immagine
meticcia, né india né spagnola, di Maria nel momento in cui l’indio la mostrò
aperta di fronte al vescovo francescano. (B.C.)
VARSAVIA. = La formazione permanente del clero, il
ruolo dei media nella missione evangelizzatrice e le regole liturgiche nel
ricevere la comunione: sono stati questi i temi al centro della 331.esima
sessione plenaria della Conferenza episcopale polacca, svoltasi l’8 e il 9
marzo scorsi a Varsavia. All’appuntamento, che è stata anche occasione per esprimere
viva vicinanza a Giovanni Paolo II, hanno preso parte pure rappresentanti delle
Conferenze episcopali di Croazia, Francia, Spagna, Lituania, Moldavia, Romania,
Slovacchia, Ungheria e Italia. Nella due giorni, i vescovi hanno esaminato il
programma pastorale legato alle celebrazioni dell’Anno dell’Eucaristia, con
particolare riguardo al Congresso Eucaristico nazionale, in programma il 18 e
19 giugno prossimi; e hanno sottolineato l’importanza del pellegrinaggio, nei
centri pastorali accademici polacchi, dell’icona della Madonna “Sedes Sapientiae”,
in preparazione della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, in Germania.
La Conferenza episcopale polacca ha, inoltre, espresso preoccupazione per i
diversi problemi che affliggono il Paese: la difficile situazione nel settore
sanitario e giudiziario, come pure la disoccupazione, la crescente povertà e il
verificarsi di una ondata di finti divorzi, che hanno lo scopo di ricevere i
sussidi sociali previsti dallo Stato. Nello stesso tempo, soddisfazione è stata
espressa per i segnali positivi, come la ferma posizione di alcuni parlamentari
contro ogni iniziativa sulla legalizzazione dell’aborto. (B.C.)
NON SI ESAURISCE LA
SOLIDARIETA’ PER LE POPOLAZIONI INVESTITE LO SCORSO
26 DICEMBRE DALLA FURIA
DELLO TSUNAMI. DOPO L’EMERGENZA, AL VIA LA FASE
DELLA RICOSTRUZIONE.
MORATORIA OFFERTA A INDONESIA E SRI LANKA
JAKARTA. = Ad oltre due mesi dal
devastante maremoto che ha investito il sud-est asiatico, la situazione resta
difficile e desolante. Il bilancio delle vittime dello tsunami dello scorso 26
dicembre, secondo le ultime cifre ufficiali, oscilla fra i 173.324 e 182.340,
il numero dei dispersi è tra 107.853 e 129.897, mentre le migliaia di sfollati
restano nelle centinaia di tendopoli che si susseguono lungo la costa. Eppure,
in questo scenario di distruzione, c’è spazio per la speranza, quella della
solidarietà che non cessa di spargere semi per il futuro. La ricostruzione, che
a piccoli passi e quasi in silenzio si districa tra le difficoltà politiche e
burocratiche, ha i colori dell’Italia, primo Paese della comunità internazionale
a dare il via agli interventi strutturali, successivi all’emergenza. La fase
del ritorno alla normalità assume un volto più chiaro in Sri Lanka. Sabato è
stata posta la prima pietra del nuovo ospedale di Kinniya, nel nord-est del
Paese, e venerdì scorso è stato dato il via al progetto di realizzazione di una
scuola di primo e secondo livello a Hikkaduwa, nel sud. Interventi che verranno
realizzati entro un anno e che si sommeranno agli altri progetti già
pianificati in altre aree dello Sri Lanka. La ricostruzione del post-maremoto
ha avuto una parte centrale, inoltre, nel summit tenutosi ieri a Giakarta, in Indonesia,
tra i 25 Paesi dell’Unione europea e i 10 dell’Associazione
delle Nazioni dell’Asia del sud-est (ASEAN). Sempre ieri, infine, il
Club di Parigi ha annunciato una moratoria per Indonesia e Sri Lanka. I due Paesi godranno della sospensione dei
pagamenti per l’anno in corso. Questa offerta d’urgenza, destinata ad aiutare
la ricostruzione dei Paesi devastati dal maremoto, era, invece, stata declinata
da India, Malaysia e Thailandia, che avevano fatto sapere che preferivano
rinunciare alla moratoria per evitare un abbassamento del loro rating, che
renderebbe più costoso l’accesso ai mercati internazionale dei capitali. (B.C.)
LA TRISTE SITUAZIONE DI SOFFERENZA ED
EMARGINAZIONE DEI BOSCIMANI
IN SUDAFRICA DESCRITTA IN UN RAPPORTO DELLA
COMMISSIONE PER I
DIRITTI UMANI. “GLI UOMINI DELLA BOSCAGLIA” VEDONO
SEMPRE
PIU’ LONTANA LA SPERANZA PER IL FUTURO
PRETORIA.
= “Una triste storia di abbandono e sofferenza” è quella raccontata nel rapporto della Commissione sudafricana per i
diritti umani, nella quale si descrive la grave situazione di emarginazione che
la minoranza “Khomani” o “San”, meglio nota come “boscimani”, è costretta a
vivere in Sudafrica. Lo afferma il presidente della commissione, Jody Kollapen,
sottolineando che “la comunità Khomani sta perdendo la speranza: non ha i mezzi
e le competenze per inserirsi e sopravvivere nel mondo moderno, così diverso da
quello della loro cultura”. I boscimani, che attualmente in Sudafrica sono
4500, discendono dalle popolazioni nomadi dell’Africa meridionale. La loro
principale attività, riferisce l’agenzia Misna, è sempre stata quella
dell’agricoltura e della pastorizia. Negli anni dell’apartheid in Sudafrica vennero espulsi
dalle loro terre e vennero privati anche del loro lavoro: oggi occasionalmente
sono occupati come guide turistiche, attrazioni, o realizzano dei piccoli
oggetti d’artigianato. Caduti vittime di soprusi e dell’alcolismo, gli “uomini
della boscaglia” (questo è il significato di boscimani) si trovano emarginati e
ai gradini più bassi della società. Anche dal punto di vista dell’istruzione i
giovani hanno molta difficoltà ad integrarsi, per via della loro cultura
nomade. Nel 1999 una legge di riforma agricola africana diede ai “Khoimani San”
l’opportunità di tornare nelle loro terre nel deserto del Kalahari, ma al loro
rientro le trovarono occupate da famiglie della polizia locale, con cui la
popolazione ha dei pessimi rapporti. A dare lo spunto per la
realizzazione di un rapporto nazionale è stato un drammatico fatto di cronaca
in cui una guida “san” fu uccisa da un poliziotto. (M.V.S.)
HA
FATTO IL SUO INGRESSO NELLE LIBRERIE IL VOLUME “LA MIA BARACCA”,
DI GIORGIO
COSMACINI, STORIA DELLA FONDAZIONE DON GNOCCHI. IL LIBRO,
LA CUI
PREFAZIONE E’ STATA SCRITTA DALL’ARCIVESCOVO DI MILANO,
IL
CARDINALE TETTAMANZI, HA UNA IMPOSTAZIONE STORICO-SCIENTIFICA
E
RACCONTA L’INCREDIBILE DESIDERIO DEL RELIGIOSO DI AIUTARE IL PROSSIMO
- A
cura di Fabio Brenna -
MILANO. = La “Baracca” in oltre cinquant’anni di
storia è diventato un modello di cura, assistenza e integrazione sociale per i
portatori di handicap, gli anziani e le persone di ogni età, affette da
patologie acquisite e congenite e che necessitano di riabilitazione. La storia
della Fondazione Pro Juventute Don Carlo Gnocchi, “la mia baracca” appunto,
come la chiamava il fondatore, viene ripercorsa in tutta la sua concretezza in
un libro scritto dallo storico della medicina Giorgio Cosmacini, con prefazione
dell’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi. Il volume, edito da
Laterza, non si limita a ripercorre, tappa dopo tappa, la crescita e
l’estensione dell’idea originale di don Carlo Gnocchi, il sacerdote milanese
cappellano degli alpini in Russia e “padre dei mutilatini”, ma mette in risalto
la filosofia innovativa che ne sta alla base. Don Carlo Gnocchi seppe infondere
nella sua opera e nella fondazione un approccio insieme educativo, rieducativo
e del reinserimento. Nella prefazione al
libro, il cardinale Tettamanzi sottolinea l’essere prete di don Gnocchi,
pervaso da una volontà determinata di fare e di aiutare gli altri. La “Baracca”
di don Gnocchi, ad oltre 50 anni dalla morte del fondatore, è una realtà
riconosciuta come IRCCS, Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, articolata
in 25 centri presenti in nove regioni italiane, con 3400 dipendenti, che ha
allargato il suo raggio d’azione anche all’estero, soprattutto in Paesi toccati
dalla guerra o in via di sviluppo. Nell’aprile del 2003, il presidente della
Repubblica italiana Ciampi l'ha insignita della medaglia d'oro al merito della
sanità pubblica.
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11 marzo 2005
- A cura di Amedeo Lomonaco -
In Iraq non
si placano le violenze e la situazione resta sempre molto tesa: oltre al dramma
dell’ennesimo attentato compiuto ieri a Mossul, si susseguono ulteriori
particolari sull’uccisione del funzionario del Sismi, Nicola Calipari, e sul
tragico capitolo delle torture perpetrate da militari americani contro detenuti
iracheni. Il nostro servizio:
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E’ salito a 50 morti il bilancio del drammatico attentato compiuto
ieri a Mossul, nel nord del Paese, da un kamikaze durante un funerale in una
moschea sciita. Per i timori di nuovi attacchi da parte della guerriglia, la
cerimonia funebre per le vittime di questo ennesimo attentato si terrà in forma
privata. Sulla sparatoria di venerdì scorso a Baghdad, costata la vita
all’agente italiano Nicola Calipari, la giornalista Giuliana Sgrena ha rilasciato
intanto una nuova intervista ad un collega del Manifesto. Giuliana ha ribadito
di non aver visto alcun fascio di luce quando i soldati americani hanno sparato
contro l’auto sulla quale viaggiava. I colpi - ha aggiunto - erano diretti
verso l’abitacolo dell’auto e non erano stati lanciati né in aria né verso il
motore. “Non ho visto posti di blocco”, ha precisato la giornalista spiegando
poi che “il fuoco è stato aperto da giovani militari statunitensi”. Mi sembrava
impossibile – ha proseguito Giuliana Sgrena - che gli americani ci attaccassero.
L’ufficiale al volante – ha dichiarato l’inviata del Manifesto - ha gridato
‘Siamo italiani’; Nicola Calipari invece non ha detto niente e mi ha coperto
mentre cercavo di scivolare tra i sedili. Nuovi sconcertanti particolari sono
stati rivelati, infine, sui casi di maltrattamenti e sevizie nelle prigioni
irachene: trascrizioni di testimonianze delle inchieste dell’esercito su quanto
avvenuto ad Abu Ghraib riferiscono che c’erano anche bambini fra i detenuti del
carcere dove militari americani si sono resi responsabili di abusi.
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In
Libano, il premier, Omar Karame, avvierà lunedì prossimo i colloqui per formare
il nuovo governo di unità nazionale ma il suo tentativo si preannuncia molto
difficile: l’opposizione non è disposta a favorire quella che definisce “una
strategia volta a far tacere il dissenso”. Da Beirut, Francesca Fraccaroli:
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I protagonisti della rivoluzione
dei cedri, che per un mese ha infiammato le strade di Beirut, insistono nel
chiedere che venga fatta luce sull’assassinio di Rafik Hariri. Non si accontentano,
inoltre, del lento ridispiegamento di truppe siriane cominciato lunedì. Il portavoce
dell’oppo-sizione si è detto però disposto a concedere una possibilità a Karame.
Il primo ministro, in ogni caso, ha messo in chiaro che si dimetterà di fronte
ad un rifiuto delle forze politiche a formare un governo nazionale. Il primo
ministro ha anche avvertito che potrebbe slittare la data delle elezioni
previste a maggio. Intanto, è atteso oggi l’arrivo, a Beirut, dell’inviato
delle Nazioni Unite in Medio Oriente, il norvegese Roed Larsen. Discuterà con i
leader libanesi dell’applicazione della risoluzione 1559 che prevede il ritiro
completo dell’esercito di Damasco dal Paese.
Da
Beirut, per la Radio Vaticana, Francesca Fraccaroli.
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Numerosi
dirigenti di Hamas, durante l’incontro a Gaza con il presidente dell’Autorità palestinese
Abu Mazen, hanno detto di voler “continuare ad osservare un periodo di tregua”
nei confronti di Israele, assicurando che parteciperanno “all’importante
riunione prevista il 15 marzo al Cairo”. Intanto, Egitto ed Israele hanno
raggiunto un accordo sul controllo della frontiera con la Striscia di Gaza.
Il presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, ha
accettato di recarsi in India dove è stato invitato dal premier, Manmohan
Singh, ad assistere ad una serie di partite di cricket. La visita di Musharraf
- già ribattezzata ‘diplomazia del cricket’ - è la prima dopo il fallimento dei
colloqui tra i due Paesi ad Agra, nel luglio 2001. Delegazioni dei due Stati si
sono incontrati in Pakistan e a margine delle sessioni dell’Onu a New York, ma
mai in territorio indiano.
Il presidente americano, George Bush,
ha rinnovato ‘l’emergenza nazionale’ proclamata nei confronti dell’Iran,
consentendo la proroga di un anno delle relative sanzioni. Lo ha reso noto la
Casa Bianca, ricordando che la decisione del 1995 è stata presa per ‘affrontare
la minaccia posta dalle azioni del governo di Teheran’, quali l’appoggio al
terrorismo, gli sforzi per minare il processo di pace in Medio Oriente e
l’acquisizione di armi di distruzione di massa.
Si è conclusa senza
incidenti la protesta contro il regime degli ayatollah di 56 iraniani che si
rifiutavano di lasciare l’aereo Lufthansa con cui avevano raggiunto Bruxelles:
una sessantina di agenti è salita a bordo del velivolo e ha fermato il gruppo
di oppositori al governo di Teheran.
Le forze di sicurezza
saudite hanno catturato 18 sospetti militanti integralisti islamici durante
un’operazione condotta nella città settentrionale di Zulfi. Le persone arrestate
- 17 sauditi e un afgano - sono sospettati di collegamenti con la sezione
locale della rete terroristica di Al Qaeda.
Il Parlamento georgiano ha adottato ieri una
risoluzione dando come tempo massimo a Mosca il primo gennaio 2006 per
smantellare le basi militari dal proprio territorio. Dopo questa data, le basi
russe saranno dichiarate “illegali”. Dopo la risoluzione, è subito scattata la
risposta di Mosca: per il ritiro - avverte il ministero della Difesa -saranno
necessari almeno 3 anni.
In Corsica,
un’esplosione avvenuta nel centro di Ajaccio, nei pressi di un ufficio pubblico,
ha provocato il ferimento di cinque persone, tra le quali due bambini. Al
Tribunale di Parigi sono state intensificate, intanto, le misure di sicurezza
in vista del processo contro Charles Pieri, nazionalista corso accusato di
finanziare le attività terroristiche degli indipendentisti.
La Croazia non ha
raggiunto le condizioni che consentono l’apertura del negoziato per il suo
ingresso nell’Unione Europea perché non ha cooperato pienamente con il
Tribunale internazionale dell’Aja sui crimini di guerra nella ex-Jugoslavia. Lo
ha affermato la presidenza lussemburghese dell’Unione. Il nostro servizio:
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La data di avvio dei
negoziati di adesione della Croazia all’Unione europea, prevista per il
prossimo 17 marzo, sarà rinviata. Secondo quanto riferito da fonti europee, la
decisione è dovuta soprattutto alla posizione contraria di Gran Bretagna,
Danimarca, Svezia, Finlandia e Olanda. Gli ambasciatori degli Stati membri,
riuniti ieri nel Consiglio dei rappresentanti permanenti, hanno ribadito che
l’ostacolo principale tra la Croazia e l’Unione Europea si chiama Ante
Gotovina, un ex generale dell’esercito croato ricercato dal Tribunale dell’Aja.
In patria, l’ex militare è considerato da molti un eroe della guerra di
indipendenza dalla ex Jugoslavia e, secondo Bruxelles, gode della protezione
delle autorità di Zagabria. Con il rinvio della data di adesione, l’Unione
Europea ha lanciato, dunque, un chiaro avvertimento al governo croato affinché
si decida a consegnare il fuggitivo. E in Croazia, intanto, il presidente Stipe
Mesic ha chiesto al Paese di cooperare con il Tribunale penale internazionale
dell’Aja sulla ex Jugoslavia e con l’Unione europea. “Non cadete nel falso
dilemma o Gotovina o l’Unione europea”, ha precisato Mesic. “Il generale in
pensione - ha aggiunto - non ha alcuna importanza in questo contesto poiché è
utilizzato da coloro che temono l'Europa”. Ora la parola definitiva sulla
questione croata passa ai ministri degli Esteri europei che si riuniranno
mercoledì prossimo a Bruxelles in occasione del Consiglio su Affari generali e
Relazioni esterne.
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Sono state formalizzate dal
Tribunale penale internazionale dell’Aja le accuse contro l’ex primo ministro
del Kosovo, Ramush Haradinaj, che mercoledì si è consegnato alla Corte dopo
aver dato le dimissioni dall’incarico di governo. Haradinaj, che durante la
guerra separatista del 1998-‘99 fu a capo dei ribelli albanesi dell’UCK, è
accusato di 37 crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
In Costa
d’Avorio, i guerriglieri delle ‘Forze Nuove’ hanno dichiarato che l’attacco
perpetrato lo scorso 28 febbraio da una milizia armata contro una loro
postazione, costituisce “il preludio di una ripresa imminente delle ostilità su
tutto il fronte”.
In
Sudan, i due principali movimenti ribelli del Darfur hanno minacciato ieri di
non tornare al tavolo delle trattative con Khartoum, se prima non partiranno i
processi contro i responsabili delle centinaia di uccisioni avvenute nella
regione. Il Movimento di Liberazione del Sudan ed il Movimento per la Giustizia
e l’Uguaglianza hanno firmato una dichiarazione congiunta ad Asmara.
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