RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVIII n. 57 - Testo della
Trasmissione di giovedì 26 febbraio 2004
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI
IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
La Chiesa svizzera devolverà ai cristiani della Terra Santa le
offerte raccolte durante la Quaresima
Si è spento all’età di 90 anni,
in Messico, l’arcivescovo emerito di Durango, Antonio Lopez Avina
Tensione ad Haiti:
ribelli armati che si oppongono al presidente Aristide pronti a sferrare
l’attacco decisivo sulla capitale
La Corea del Nord pronta
a rinunciare al programma nucleare
La guerriglia torna a
colpire le forze di polizia in Iraq
Paura di nuove scosse e
rabbia per la lentezza dei soccorsi in Marocco, dopo il terremoto di due giorni
fa
Nuove violenze in Medio
Oriente e condanna degli Usa per l’operazione israeliana nelle banche
palestinesi.
26 febbraio 2004
“DAMOSE DA FA’”: L’INCORAGGIAMENTO DEL PAPA, IN
DIALETTO ROMANESCO,
AI
PARROCI ROMANI RICEVUTI STAMANE IN VATICANO
Giovanni
Paolo II, vescovo di Roma stamane in compagnia dei suoi parroci, nell’incontro
tradizionale che si ripete ogni anno all’inizio della Quaresima, a pochi giorni
dalla ripresa dei suoi incontri con le parrocchie di Roma. Sabato prossimo,
infatti, il Papa riceverà nel pomeriggio nell’Aula Paolo VI in Vaticano, celebrando
una Santa Messa, le comunità di Sant’Anselmo, di Santa Maria
dell’Evan-gelizzazione, di San Carlo Borromeo e di San Giovanni Battista de la
Salle, tutte nel settore sud della diocesi. Salirà così a 307 il numero totale
delle parrocchie romane incontrate dal Papa durante il suo ministero petrino.
Parrocchie di Roma, che in tutto sono 336. Ma ascoltiamo la cronaca
dell’udienza odierna dei parroci romani accompagnati dal cardinale vicario,
Camillo Ruini. Il servizio è di Roberta Gisotti:
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“Qua
te volemo tutti bbene”:
Cosi un
parroco romano de Roma al Papa, chiedendogli “un piccolo regalo”: “una parola
in dialetto romanesco”, Lui che ha parlato in tutto il mondo in oltre 100
lingue.
“Damose
da fà, volemose bbene, semo romani”.
Ha
raccolto la sfida, Giovanni Paolo II. Un incontro come sempre affettuoso tra il
vescovo di Roma e la sua “tanto amata Chiesa” per condividere “speranze e
preoccupazioni”, in particolare quest’anno sulla famiglia, tema al centro del
programma pastorale della diocesi. Preoccupazioni e speranze che sono emerse
nell’intervento del cardinale Ruini e nelle testimonianze dei parroci, sincere,
a volte sofferte, negli interrogativi posti, tanti, nelle ammissioni di
difficoltà, nelle conferme di impegno e dedizione. E il Santo Padre ha ascoltato
attentamente prima di parlare lui ai parroci, un discorso breve a braccio:
“Famiglia
vuol dire: uomo e donna lì creò; vuol dire: amore e responsabilità. E poi, da
queste due parole vengono tutte le conseguenze”.
Ha poi
citato la sua esperienza personale:
“Ho
imparato da tempo, ancora quando ero a Cracovia, di vivere con le coppie, con
le famiglie, anche ho assistito al processo come da due persone – uomo e donna
– si è creata una famiglia, perché attraverso la famiglia passa il futuro della
Chiesa e il futuro del mondo”.
Il
rimando poi al discorso scritto, con tante raccomandazioni e incoraggiamenti ai
parroci: “Non abbiate paura di spendervi per le famiglie, di dedicare a loro il
vostro tempo e le vostre energie. “Siate per loro amici premurosi e affidabili,
oltre che pastori e maestri”. Proponete “con verità e amore, senza riserve o
interpretazioni arbitrarie, il Vangelo del matrimonio e della famiglia… Siate a
loro vicini spiritualmente nelle prove che la vita spesso riserva … educate i
giovani a capire ed apprezzare il vero significato dell’amore …” Ma attenzione
a non lasciarsi vincere da sfiducia e rassegnazione, di fronte “ai comportanti
sbagliati e non di rado aberranti, che vengono pubblicamente proposti, e anche ostentati
ed esaltati”; e nel “contatto quotidiano con le difficoltà e le crisi che molte
famiglie attraversano”. Una tentazione che “con l’aiuto di Dio – ha detto il
Papa – dobbiamo sconfiggere, anzitutto dentro di noi, nel nostro cuore e nella nostra
intelligenza”, perché nessun peccato, ideologia, inganno possono sopprimere la
struttura profonda del nostro essere bisognoso di essere amato e capace di
amore autentico. E dunque “per quanto grandi sono le difficoltà, - ha concluso
Giovanni Paolo II - tanto è più forte la nostra fiducia nel presente e nel
futuro della famiglia”.
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Ma sulla vita delle parrocchie romane e sul rapporto
particolare che c’è tra i parroci della capitale e il Papa, ascoltiamo padre
Piero Leta, parroco della chiesa di Santa Maria in Traspontina, in via della
Conciliazione, al microfono di Giovanni Peduto.
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R. – Come sappiamo tutti, il Papa è il vescovo di Roma, quindi noi
parroci siamo profondamente legati a lui, sia nella situazione pastorale, sia
affettivamente, per la sua persona e per la sua sofferenza.
D. – Quali sono le principali difficoltà che incontrano i sacerdoti, i
parroci, specialmente nella loro attività pastorale?
R. – Quelle di interagire con la nostra gente che è presa
dal consumismo, dal secolarismo. Ci stiamo accorgendo che per molti manca la
prima evangelizzazione. Probabilmente dobbiamo rivedere il nostro modo di
rapportarci alla gente. Siamo sfidati ad uscire dal recinto Chiesa e ad andare
per le case, per le famiglie, in modo tale da cambiare questo rapporto, capire
meglio la gente dal di dentro, i suoi ritmi, le sue difficoltà, le sue ansie,
ma anche le sue grandi aspirazioni, per ridonare la speranza della buona
notizia del Vangelo.
D. – Quali sono le gioie per un parroco?
R. – Le gioie sono legate al fatto del rapporto interpersonale, come
credo un po’ tutti. Quindi, quando noi riusciamo a trasmettere Gesù Cristo, la
gente l’accoglie e si sforza di creare unione tra la fede e la vita. Credo che
questa sia la più bella gratificazione.
D. – Come vede la partecipazione dei laici?
R. – La nuova Chiesa è sostenuta dai laici. Quindi, occorre dare loro il
massimo spazio. D’altra parte, occorre dare anche ai laici una buona
formazione.
D. – Roma è la diocesi del Papa, ma molti sono lontani.
Cosa fare per loro?
R. – La Chiesa deve essere in mezzo alla gente. Deve
essere una Chiesa povera, disponibile al dialogo, deve essere una Chiesa capace
di rivedere i propri lati negativi, ma allo stesso tempo proporre itinerari di
fede, il che significa non itinerari di un gruppo o di chi viene in Chiesa. Si
tratta di impostare una nuova evangelizzazione ed una nuova pastorale che pensi
a tutti, sempre e comunque. Quando c’è stato il Giubileo, è stata la missione
voluta dal Papa che ha portato di nuovo il Vangelo nelle case. Molta gente ha
detto: “Vi aspettavamo. Finalmente siete venuti”.
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ALTRE UDIENZE E NOMINE
Il
Santo Padre nel corso della mattina ha ricevuto in udienza il cardinale Camillo
Ruini, suo vicario generale per la diocesi di Roma, insieme con mons. Vincenzo
Apicella, vescovo titolare di Gerafi, ausiliare di Roma per il settore
pastorale Ovest, e tre parroci romani.
Il Papa ha quindi nominato ausiliare dell’arcidiocesi di
Košice in Slovacchia mons. Stanislav Stolárik, del clero della medesima arcidiocesi,
finora parroco di San Nicola a Prešov, assegnandogli la sede titolare vescovile
di Barica. Mons. Stanislav Stolárik è nato a Rožňava il 27 febbraio 1955
ed è stato ordinato sacerdote l’11 giugno 1978.
Il Santo Padre ha poi nominato ausiliare dell’arcidiocesi
di Panamá (Panama) mons. Pablo Varela Server, del clero dell’arcidiocesi di Panamá,
rettore dell’Università Santa María la
Antigua, assegnandogli la sede titolare di Macomades Rusticiona. Mons. Pablo Varela Server è nato a
Denia (Spagna), diocesi di Orihuela - Alicante, il 2 luglio 1942 ed è stato
ordinato sacerdote il 28 giugno 1970.
Infine Giovanni Paolo II ha nominato ausiliare dell’arcidiocesi
di Panamá (Panama) anche il padre agostiniano José Domingo Ulloa Mendieta,
finora vicario provinciale dell’Ordine di Sant’Agostino in Panamá e parroco
della cattedrale di San Juan Bautista
in Chitré, assegnandogli la sede titolare vescovile di Naratcata. Mons. José Domingo Ulloa Mendieta è
nato a Chitré, il 24 dicembre 1956 ed è stato ordinato sacerdote il 17 dicembre
1983.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
Apre la prima pagina il
tradizionale incontro del Papa con i parroci di Roma all’inizio della
Quaresima.
S’impone il titolo “Non
stanchiamoci mai di proporre, annunciare e testimoniare la grande verità
dell’amore e del matrimonio cristiano”.
In evidenza anche l’esortazione
ad essere per le famiglie amici premurosi e affidabili, oltre che pastori e
maestri.
Sempre in prima un articolo di
Umberto Santarelli dal titolo “L’ispirazione del cristiano. La sapienza del
legislatore”: la Camera dei Deputati italiana onora Giorgio La Pira.
Nelle vaticane, l’omelia del
cardinale Jozef Tomko durante la celebrazione eucaristica del Mercoledì delle
Ceneri; “La Chiesa ci indica la strada: elemosina, preghiera e digiuno”.
Nelle estere, riguardo alla
crisi nucleare si sottolinea che Pyongyang si è detta pronta a
rinunciare ai suoi programmi atomici militari.
Haiti: la crisi al vaglio
dell’Onu.
Nella pagina culturale, per la
rubrica “Oggi”, una riflessione di Franco Patruno dal titolo “Quando il bisturi
è ridotto a strumento di spettacolo”; notazioni in margine ad una trasmissione
televisiva.
Nelle pagine italiane, in primo
piano i temi delle riforme e della giustizia.
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26 febbraio 2004
IL PRESIDENTE DELLA MACEDONIA, BORIS TRAJKOVSKY
PERDE LA VITA IN UN TRAGICO INCIDENTE AEREO. IL CORDOGLIO DELLA COMUNITA’
INTERNAZIONALE
Il presidente macedone Boris
Trajkovski è morto questa mattina in un incidente aereo. Il velivolo che lo
portava da Skopje a Mostar è caduto nei pressi di Stolac, nel sud-ovest della
Bosnia. Il servizio di Giada Aquilino:
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E' scomparso dai radar quando volava a 30 km ad est di
Mostar - in Bosnia - l'aereo con a bordo il 47.enne presidente macedone Boris Trajkovski ed
altre otto persone, tra consiglieri, guardie del corpo e membri dell’equipaggio. I rottami del
velivolo sono stati ritrovati infatti nella parte meridionale della Bosnia. Non
ci sono sopravvissuti. Ignote al momento le cause del disastro, ma nella zona
piove e incombe una fitta nebbia. Unità della Sfor, la Forza di stabilizzazione
della Nato in Bosnia, sono presenti sul luogo della sciagura. Trajkovski era a bordo del jet - dono del governo
americano alle forze aeree macedoni - per recarsi a Mostar, dove sarebbe dovuto
intervenire ad una conferenza internazionale sugli investimenti in
Bosnia-Erzegovina, proprio mentre il premier macedone Branko Crvenkovski a Dublino avrebbe
dovuto presentare la domanda di ammissione della Macedonia all’Unione Europea.
Il premier ha subito anticipato il rientro a Skopje. Eletto presidente nel
novembre del 1999 - quando già la Mecedonia era diventata indipendente dalla
Jugoslavia nel ’91 - il principale leader del centro destra macedone Trajkovski
era riuscito nel 2001 a riportare il Paese alla stabilità, dopo lunghi mesi di
tensioni con la minoranza albanese. Il Parlamento europeo, riunito oggi a
Bruxelles, ha osservato un minuto di silenzio in ricordo del capo di Stato
macedone scomparso. Il presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, ha
parlato di “giorno molto triste per la Macedonia, che perde un leader saggio ed
equilibrato, per la regione dei Balcani, per la cui integrazione aveva fatto
così tanti sforzi, e per l'Europa, che perde un sostenitore dei valori di
tolleranza su cui l’Unione è basata”.
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Proprio sulla figura di Boris Trajkovski ascoltiamo il commento di Federico
Eichberg, esperto del mondo balcanico, intervistato da Roberto Piermarini:
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R. –
Boris Trajkovsky era un presidente sicuramente anomalo per i Balcani e con
questa espressione sottolineiamo una sua notevole predisposizione al dialogo,
fin dalla sua campagna elettorale che fu improntata al dialogo tra le componenti,
quella slavo-macedone e quella albanese. Un presidente improntato anche al
dialogo interreligioso. Era metodista. Forse anche questo lo aveva portato a
cercare un dialogo, venendo da una confessione minoritaria, con la confessione
dominante in Macedonia, cioè quella ortodossa, ma anche con la confessione
cattolica, con la religione islamica professata da decine di migliaia di
albanesi. Quindi, un presidente che aveva anche fatto del dialogo politico la
sua stella polare. Nella sua presidenza si ricordano numerosi accordi
significativi, fra cui quello delle minoranze reciproche con Albania e
Bulgaria, quello della tutela della lingua, sempre con Albania e Bulgaria, e da
ultimo – se vogliamo ricordare una parentesi molto bella e costruttiva – quella
dell’assistenza che diede ai profughi kosovari per tutti i mesi duri della campagna
aerea, soprattutto nei mesi successivi alla stessa.
D. – Cosa rappresenta la sua morte per lo Stato macedone?
R. – La morte di Trajkovsky è la morte di un presidente,
che forse incarna più di altri uno spirito macedone che in questo decennio ha
fatto eccellere questo piccolo Stato, per aver saputo contenere le possibili frizioni.
D. – La notizia della morte di Trajkovsky giunge proprio
nel giorno in cui il premier macedone doveva chiedere alla presidenza irlandese
l’adesione all’Unione Europea. La sua morte può compromettere questa adesione?
R. – La Macedonia è avviata con uno sprint superiore,
rispetto ad altri Paesi in condizioni economiche simili. Sicuramente la
scomparsa di un leader di chiara fama può rallentare questo processo se avrà
ricadute di politica interna imprevedibili ad oggi. Mentre è più prevedibile
che le sedute in politica interna siano costruttive nella memoria di un personaggio
sicuramente positivo.
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E’ USCITO IERI NEI CINEMA DEGLI STATI UNITI
IL
FILM “LA PASSIONE DI CRISTO”, DI MEL GIBSON
E’
uscito ieri nei cinema degli Stati Uniti il film “La Passione di Cristo”, di
Mel Gibson, la storia drammaticamente dettagliata delle ultime ore della vita
terrena di Gesù, dal Getsemani alla morte in Croce, con una rapido accenno alla
Resurrezione. Da New York, Elena Molinari.
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La Passione di Cristo è arrivata al debutto così carica di
attese, positive e negative, che nel giorno della sua uscita in ben quattro
mila sale, stampa e pubblico americani trovano difficile valutarlo per i suoi
meriti artistici. Ci hanno, in realtà, provato alcuni critici delle maggiori
testate statunitensi ma i commenti che dominano ancora le pagine dei giornali
restano quelli dei gruppi che difendono il valore spirituale del film o che ne biasimano i toni provocatori.
L’uscita ha, però, perlomeno ridimensionato se non eliminato del tutto la
polemica del presunto antisemitismo del regista. Fra i giornali americani, infatti,
solo il tabloid newyorkese “Daily News” insiste oggi nel dire che il film
“fomenta sentimenti antiebraici” ma non prima di aver chiarito nel titolo che
la vera colpa della Passione è una violenza grottesca e selvaggia. Assoluzione
completa, invece, su questo fronte dal filoebraico “New York Times”, che però
sottolinea il fallimento artistico del film: a suo dire non fornisce infatti
elementi sufficienti per dare significato allo spargimento di sangue. Né la
violenza né le recensioni negative fermeranno gli americani, che non cercano
nella Passione un bel film ma un atto di preghiera, quasi una via crucis
dal potere salvifico. Non si spiegherebbe altrimenti perché in migliaia si sono
alzati all’alba per precipitarsi agli spettacoli no stop in programma per il
Mercoledì delle Ceneri.
Da New York Elena Molinari per la Radio Vaticana.
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Ma per un
commento sul film di Mel Gibson ascoltiamo don Luca Pellegrini, critico della
“Rivista del Cinematografo”.
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Anche se non si accettasse la
visione estremamente dura, realistica ed audace del celebre regista ed attore
australiano (si è parlato molto del suo atteggiamento pre-conciliare), essa
potrebbe comunque costringerci a
mettere in luce non tanto le fondamenta della nostra fede, quanto il nostro
rapporto con un Dio picchiato, insultato, flagellato, torturato, deriso,
crocifisso. Per questo il film compie, per la cultura moderna, una nuova
rivoluzione nell’immagine di Gesù: lo scandalo esibito, visto, vissuto, della
Croce - e delle ore che la preparano - ripropone ancora una volta
l’interrogativo sul concetto di Dio. Gibson si sofferma con puntigliosa
attenzione ed intensità proprio su quei particolari di un supplizio maledetto
dalla legge, cioè sui tratti meschini e miserabili del Dio cristiano,
riversandoli con coerenza ed onestà in una pellicola diretta in modo magistrale
ed interpretata da attori preparatissimi. Perché per loro non è stato facile
recitare in aramaico e latino, le uniche lingue utilizzate e tradotte dai
sottotitoli, sicuramente una delle scelte più interessanti e originali, che
riconduce ad un contesto storico e ad una dimensione assai verosimili dei tempi
di Gesù. Troviamo una Madre davvero pietrificata dal dolore, cui presta il
volto una straordinaria Maia Morgerstern, al fianco del Figlio, Jim Caviezel, asciutto,
secondo la tradizionale iconografia, che stringe con amore la sua Croce, che scopre
sia il volto del pastore nei rapidi flash-back sia quello dell’Agnello immolato
e sul quale ricadono - lo si avverte con la forza delle immagini e con un
montaggio serrato - tutto il peccato,
la violenza e l’oscenità del mondo e della storia. Lo seguono sulla via dolorosa anche Maria Maddalena
(Monica Bellucci) e Giovanni; Giuda, invece, viene condotto al suicidio da un
gruppo di fanciulli che lo inseguono urlandogli la maledizione. Pilato si fa
prendere da scrupoli che la ragion di Stato ben presto cancella, mentre la
moglie Procula cerca di interpretare il sogno, portando a Maria - immagine
bellissima - un panno col quale asciugare il sangue del Figlio flagellato per
oltre venti, implacabili minuti.
I romani vivono la loro crudeltà
con quella spudorata volgarità che era tipica delle legioni stanziate per
controllare un Paese difficile come la Palestina. Caifa (un ottimo Mattia
Sbragia) guida il Sinedrio e sobilla il popolo orientandolo alla condanna, ma
alcuni sommi sacerdoti lasciano il gruppo al momento del giudizio. Segue ogni
passo di Gesù l’antico avversario, Satana, interpretato da Rosalinda Celentano.
Ai piedi della Croce urlerà la sua sconfitta, accompagnata da un terremoto
innescato da una sola goccia d’acqua che precipita velocissima dal cielo (una
lacrima del Padre?). Qualità altissima anche per la fotografia, il montaggio, i
costumi di Maurizio Millenotti, le scene di Francesco Frigeri (il film è stato
girato tra Matera e Cinecittà).
Ritornare, in ogni modo, alla
paradossalità della Croce e del messaggio di Cristo (le beatitudini, il perdono
dell’adultera, l’eucaristia, l’amore per i propri nemici, momenti ricordati da
Gesù nel corso della sua Passione), può servire a purificare la nostra fede, a
renderla più ‘cristiana’ e non così ovvia, scontata, edulcorata, specchio di un
cristianesimo molle, rilassato. Il film ci pone sotto gli occhi con ostentata
sicurezza, senza diaframmi, senza mediazioni, ma in modo sfacciato, come lo è
sempre la violenza, la difficoltà di essere cristiani, per non correre il rischio
di esserlo troppo. Per ricondurci allo scandalo della Croce, a quel legno
grondante sangue. Alla Croce che è sapienza di Dio, segno incommensurabile del
suo amore, della sua vittoria sul peccato e sulla morte.
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L’ECUMENISMO AL CENTRO DELLA CONFERENZA
INTERNAZIONALE
DI ADORAZIONE E LODE SVOLTASI A BARI
- Intervista con il professor Matteo Calisi -
Un evento a carattere ecumenico, che ormai da quattro
anni, caratterizza il cammino del Rinnovamento carismatico cattolico, la
Conferenza internazionale di adorazione e lode, promossa a Bari dalla Comunità
di Gesù. All’atteso appuntamento nella città levantina quest’anno sono
convenuti 1500 fedeli di diverse confessioni cristiane, da 11 Paesi europei e
americani. Tema al centro dell’incontro, durato tre giorni e svoltosi la scorsa
settimana, è stato “La restaurazione della Tenda di Davide”. Cosa può significare
oggi questo invito? Roberta Gisotti lo ha chiesto al prof. Matteo Calisi,
presidente della Comunità di Gesù, e della Catholic Fraternity of Charismatic
Covenant Communities and Fellowships.
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R. –
Vedere la diversità non come un ostacolo. Sembra paradossale, ma non sempre le
differenze sono una divisione. Quindi, noi possiamo imparare ad accettare
l’altro nella sua diversità, senza smarrire la nostra identità cattolica, che
può essere vissuta in pienezza e fedeltà. Perché proprio nella preghiera
avviene uno scambio di doni, come se il carisma di una Chiesa fosse dono per le
altre Chiese e ciascuna di queste dischiuse per ricevere il dono dall’altra. E’
proprio con questo spirito che la Comunità di Gesù di Bari da diversi anni si
incontra per pregare con membri di altre Chiese cristiane, perché proprio Gesù
ha insegnato a pregare ostinatamente il Padre perché vi sia unità tra tutti i
discepoli di Cristo, e la sua preghiera, noi crediamo, è infallibile e non
resterà inesaudita.
D. – Quali suggerimenti, stimoli ed anche sfide sono
emerse dalle testimonianze portate a Bari?
R. – Abbiamo una sezione trasversale del Cristianesimo
contemporaneo che sta vivendo un’esperienza carismatica, definita dai più come
la grazia del Battesimo dello Spirito Santo. Una grazia ecumenica che oggi
raccoglie circa 600 milioni di cristiani di tutte le denominazioni. E questa
rappresenta una grande sfida, un grande dono per l’unità dei cristiani.
D. – Alla Conferenza c’erano anche diverse presenze dai
Paesi dell’Est europeo…
R. – Naturalmente con l’adesione di diverse nazioni
dell’Est europeo all’Unione Europea ci troviamo davanti ad una sfida da
raccogliere, quella dell’inte-grazione di popoli europei ed anche di un
reciproco scambio di doni di Chiese di tradizioni cristiane. Molte di queste
Chiese, che sono risorte dalle macerie del comunismo e del nazismo, oggi si
trovano a confrontarsi con la Chiesa occidentale. Per questa ragione proprio
qui a Bari - che possiamo dire è un luogo per eccellenza teologico dell’incontro
tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente - noi abbiamo ricevuto in
questa Conferenza diversi rappresentanti autorevoli di queste Chiese martiri,
soprattutto quelle greco-cattoliche, ma anche ortodosse, sia dalla Bielorussia,
dall’Albania ed anche dalla Croazia. Quindi, riteniamo che Bari rappresenti un
luogo che acceleri questo processo di dialogo tra Est ed Ovest.
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26 febbraio 2004
LA CHIESA SVIZZERA DEVOLVERA’ AI CRISTIANI DELLA TERRA SANTA
LE OFFERTE RACCOLTE DURANTE LA QUARESIMA. IN UN MESSAGGIO, I VESCOVI
ELVETICI INVITANO I FEDELI A OFFRIRE UN SOSTEGNO CON LA PREGHIERA E I
PELLEGRINAGGI
BERNA. = La Chiesa svizzera si mobilita in
favore della Terra Santa. I vescovi elvetici hanno inviato ai loro fedeli una
esortazione per portare aiuto e sostegno alle “tante famiglie cristiane della
Terra Santa, che attendono un segno d’amore e di vincolo dai nostri Paesi”. Nel
ricordare in un messaggio che le offerte raccolte durante la Quaresima e in
particolare nella Settimana Santa saranno devolute come contributo ai cristiani
che vivono nei luoghi santi, i vescovi della Svizzera hanno sottolineato come
spesso le notizie delle tragedie che insanguinano il Medio Oriente a cadenza
quasi quotidiana rischiano di lasciare in chi le ascolta un senso di
indifferenza. “Ne siamo colpiti – si legge nel messaggio - eppure costruiamo
una specie di barriera davanti ai nostri sentimenti. Dove scaturisce un segno
di speranza, esso viene presto distrutto da nuova violenza. Innocenti diventano
vittime di questa violenza e presto dimenticati, i bambini rapidamente”.
Eppure, continuano i presuli, “i cristiani continuano a vivere in Terra Santa e
la loro presenza non è inefficace. Tentano, in una situazione senza speranza,
di seminare speranza. Dobbiamo aver cura di questi fratelli e sorelle nella
fede che vivono nelle terre d’origine del cristianesimo”. Oltre al contributo
finanziario ricavato dalle offerte quaresimali, i vescovi svizzeri hanno
indicato nella preghiera, nei pellegrinaggi e nei contatti personali un mezzo
per portare “un aiuto magari piccolo, ma impregnato di spirito evangelico per
lenire la situazione esplosiva in Oriente". Con le offerte dei cattolici
svizzeri, informa l’ufficio stampa della Conferenza episcopale svizzera, si sostengono
ad Haifa, in Galilea, studenti arabi, dotati ma poveri, che già si impegnano
nel campo sociale; in Siria si aiuta a costruire un centro parrocchiale; a Betlemme
si sostiene la costruzione, già iniziata dai francescani, di appartamenti per i
cristiani poveri. (A.D.C.)
OLTRE
250 MONACI BUDDISTI DELLO SRI LANKA CANDIDATI PER LE ELEZIONI
DEL 2 APRILE, ALL’INTERNO DI UN PARTITO
NAZIONALISTA. I VESCOVI
DEL PAESE SI SONO DETTI CONTRARI ALL’INUSUALE
SCELTA POLITICA,
DEFINITA
“DANOSSA PER IL BUDDISMO”
- A
cura di Lisa Zengarini -
COLOMBO. = I vescovi dello Sri Lanka hanno espresso la
propria preoccupazione per la candidatura di numerosi monaci buddisti in un partito
nazionalista cingalese, in vista delle prossime elezioni generali del 2 aprile.
All’appuntamento elettorale, si presenteranno 260 monaci nelle file del Jathika
Hela Urumaya (Jhu). Si tratta di una partecipazione ”dannosa per il
buddismo”, ha affermato il vescovo ausiliare di Colombo, Marius Joseph Peiris,
all’agenzia Ucan. Il presule ha ricordato che è prassi consolidata il fatto che
“chierici e monaci non partecipino ad attività politiche e alle elezioni”. La
candidatura dei monaci ha suscitato critiche anche tra i buddisti. Due alte
autorità religiose buddiste locali hanno pubblicato una dichiarazione congiunta
in cui condannano l’iniziativa del partito Jhu. Una posizione peraltro non
condivisa da tutti i leader religiosi buddisti del Paese, alcuni dei quali
vicini ai nazionalisti. A questi ambienti, è legata la crescente ostilità verso
i cristiani in Sri Lanka, accusati di compiere “conversioni non etiche” e di
minacciare l’identità nazionale del popolo srilankese. In questi mesi, varie
decine di Chiese, tra cui ultimamente anche diverse cattoliche, sono state
oggetto di attacchi. Ad alimentare le tensioni è l’aggressivo proselitismo di
alcune sette protestanti, sui cui metodi ha espresso riserve anche la Chiesa
cattolica.
LETTERA
PASTORALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE INDONESIANA IN VISTA
DELLE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE E
PRESIDENZIALI: L’INVITO DEI VESCOVI
A
VALUTARE CON ATTENZIONE LA STATURA MORALE DEI CANDIDATI
GIAKARTA. = Si intitola
“Cercate la verità e la giustizia” la lettera pastorale diffusa nei giorni
scorsi dalla Conferenza episcopale indonesiana, in vista della tornata
elettorale delle politiche e delle presidenziali, in programma il 5 luglio e il
20 settembre prossimi. “Noi sentiamo il dovere di partecipare a trovare la
strada per attuare gli ideali per la costruzione della Repubblica
dell’Indonesia”, affermano i vescovi, che incoraggiano gli elettori cristiani -
riferisce l’agenzia Misna - ad informarsi sul funzionamento del processo
elettorale e a scegliere con attenzione candidati e partiti politici, valutando
l’onestà e le capacità dei candidati, ma anche analizzando con attenzione i
loro programmi e i partiti che rappresentano. In particolare, i vescovi
suggeriscono di non concedere la propria fiducia a personaggi inquisiti o che hanno
utilizzato la violenza per imporsi. “Cerchiamo dei candidati legislativi - si
legge nella lettera pastorale - costruttori di atteggiamenti di tolleranza nei
rapporti con le diverse religioni che siano essi stessi praticanti di questi
valori religiosi in modo che di fatto essi stessi rispettino chi ha una
religione diversa dalla loro”. I presuli dell’Indonesia sono netti nel
precisare che l’esercizio del voto “non guarda alla religione”. Noi, affermano,
“diamo la precedenza alle qualità morali e alle capacità personali. Non diamo
il voto a chi non ha cura dell’ambiente, a chi non mette in pratica le leggi, a
chi non rispetta i diritti e la dignità della donna”. Nell’invitare tutti al
rifiuto totale della violenza, i vescovi concludono affermando che “le elezioni
politiche costituiscono una parte del lungo processo di cambiamento da un
governo autoritario verso un governo democratico”. (A.D.C.)
UN
RAPPORTO DELL’UNICEF SULLA SITUAZIONE DEI BAMBINI INDIGENI RIVELA L’ASSENZA,
PER MOLTI DI LORO, DEI DIRITTI UMANI FONDAMENTALI.
APPELLO
ALLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE PERCHE’ TUTELI I CIRCA 300 MILIONI
DI
MINORI SPARSI IN COMUNITA’ DI NATIVI DI 70 NAZIONI
MADRID.
= La direttrice generale dell’Unicef, Carol Bellamy, ha presentato ieri un
rapporto per chiedere alla comunità internazionale “misure urgenti” a tutela
dei diritti dei bambini indigeni. Si tratta di una delle fasce “più vulnerabili
al mondo”, ha detto il numero del Fondo Onu per l'Infanzia. Secondo il
Rapporto, presentato dalla Bellamy ieri a Madrid, nel Palazzo della Corona
spagnola, nel mondo ci sono attualmente circa 300 milioni di minori
appartenenti a popolazioni indigene, distribuiti in oltre 70 nazioni: la metà
circa vive in Asia, mentre il secondo gruppo più importante si trova in America
Latina. “Se vogliamo riuscire a ridurre la povertà, portare l'educazione a
tutti e porre fine ad epidemie come quella dell'Aids, dobbiamo concentrarci
sull'assistenza a tutti i bambini, senza scordare quelli più vulnerabili, come
appunto quelli che appartengono a comunità indigene”, ha sottolineato Bellamy.
Per la responsabile dell'Unicef, il primo diritto di un bimbo indigeno consiste
nella registrazione della sua nascita giacché, ha osservato, “in questa lotta
per ottenere un'identità, è la sopravvivenza della comunità stessa che è in
gioco”. I minori delle comunità indigene sono meno vaccinati degli altri,
registrano tassi di mortalità maggiori e livelli di scolarizzazione inferiori
alla media: fra i bambini indigeni del Guatemala, ad esempio, il numero di bocciati
ogni anno nelle classi elementari arriva quasi al 90%. Per lottare contro
questi fenomeni, ha proseguito Bellamy, è necessario definire programmi di
educazione che tengano conto delle specificità di questi bambini: corsi
bilingue, e orari compatibili con il modo in cui vivono le diverse comunità. In
ambito sanitario, inoltre, l’Unicef ritiene cruciale formare professionalmente
personale medico proveniente dalle stesse comunità indigene, per fare che
l'assistenza in questo campo non sia percepita come un'invasione di valori
estranei alla comunità, compromettendone l'efficacia. (A.D.C.)
SI E’ SPENTO ALL’ETA’ DI 90 ANNI, IN MESSICO,
L’ARCIVESCOVO
EMERITO DI DURANGO, ANTONIO LOPEZ AVINA.
AVEVA
MEDIATO PER ANNI IN FAVORE DELLA PACE
NELLA
TORMENTATA ZONA DEL CHIAPAS
DURANGO. = Mons. Antonio Lopez
Avina, arcivescovo emerito di Durango, si è spento mercoledì scorso nella
capitale dell’omonimo Stato del Messico settentrionale. Il religioso, che aveva
90 anni, era stato arcivescovo di Durango dal 1961 fino al suo ritiro, avvenuto
nel 1993, e si era dedicato fino alla fine a una delle questioni che più gli
stavano a cuore, la pace nel Chiapas. Più volte aveva invitato il governo di
Città del Messico e l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) a
sedersi di nuovo al tavolo delle trattative per riprendere un dialogo nel nome
della pace e del benessere delle comunità indigene chiapaneche. (A.D.C.)
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26
febbraio 2004
- A cura di Salvatore Sabatino -
Si aggrava di ora in ora il drammatico bilancio del
terremoto che ha sconvolto il Marocco nella notte tra lunedì e martedì: secondo
fonti locali, le vittime potrebbero essere un migliaio. I morti accertati
finora sono 571 e 405 i feriti, mentre circa 20 mila sono gli sfollati. Mentre
sale la polemica contro il governo – accusato dalla popolazione di essere intervenuto
in ritardo – i soccorsi proseguono. Andrea Sarubbi ha raggiunto telefonicamente
Luca Spoletini, portavoce della Protezione civile italiana, impegnata in queste
ore nei pressi del villaggio di Ait Kamra, epicentro del sisma:
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R. – Ci sono alcuni edifici collassati sui quali sono
state effettuate le operazioni di ricerca e soccorso; ci sono anche delle
abitazioni lesionate, ma molto di più fa la paura che in qualche modo
condiziona gli abitanti a non entrare nelle loro case, in attesa di una opportuna
verifica degli edifici che li dovranno ospitare.
D. – E voi, come protezione civile italiana, cosa avete
portato?
R. – Noi abbiamo effettuato fino a questa mattina le
operazioni di ricerca e soccorso che, ripetono, possono essere considerate
concluse alla luce del fatto che il maggior numero di vittime purtroppo si è
verificato nel crollo di palazzine a più piani: con l’evento sismico avvenuto
nel cuore della notte, ospitavano purtroppo molte persone. E in più, abbiamo
portato tende e medicinali e generi di prima necessità che proprio questa
mattina abbiamo distribuito alla popolazione. Speriamo che sia un beneficio sia
pur minimo per alleviare la sofferenza di questa gente.
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Forse ad una conclusione la crisi in corso da un anno e
mezzo sul programma nucleare nord coreano. Pyongyang ha infatti affermato di
essere pronta a rinunciare al suo piano per la costruzione di armi atomiche. La
notizia è stata data alla stampa da Alexander Losiukov, capo della delegazione
russa ai colloqui di Pechino. All’incontro, in corso da ieri, partecipano le
due Coree, gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e la Russia. Sul tavolo delle
trattative anche la situazione dei diritti umani nel Paese: nel suo rapporto
annuale il dipartimento di Stato americano ha definito il regime in Corea del
Nord “uno tra i più inumani al mondo”.
La guerriglia torna a colpire
le forze di polizia in Iraq. Scenario dell’ultimo attentato, un mercato di
Baqubah, 60 chilometri a nord di Baghdad. Nella deflagrazione è rimasto ucciso
un ufficiale della polizia irachena. Altri cinque agenti sono rimasti feriti.
Stato di alta tensione ad
Haiti. E’ ormai questione di ore: i ribelli armati che si oppongono al
presidente Aristide potrebbero sferrare da un momento all’altro l’attacco
decisivo sulla capitale, Port-au-Prince. I combattenti – tra le varie opzioni –
puntano a catturare il capo di Stato e ad accusarlo di alto tradimento. Intanto
Francia e Stati Uniti si sono detti favorevoli all’invio di una forza di pace
sull’isola caraibica. Ma a questo punto quale soluzione è auspicabile per
Haiti? Lucas Duran lo ha chiesto a mons. Pierre Dumas, vescovo ausiliare di
Port-au-Prince:
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R. – Occorre che tutti gli attori – sia a livello locale,
sia a livello internazionale – guardino ai più colpiti, ai più poveri, ai
bambini colpiti dalle malattie e colpiti da questa situazione di fame. Alcuni
sono già morti. Si rischia ora di arrivare ad una vera e propria catastrofe
umanitaria. Credo che, per evitare di arrivare al peggio, occorra agire oggi.
Quelli che devono prendere le decisioni, devono guardare a tutte le
possibilità, intendendo ovviamente possibilità pacifiche. In questo senso dico
che non è questo più il tempo dei calcoli interessati. E’ il tempo di agire; è
necessario agire oggi, non domani. Più lasciamo andare questa crisi, più
rischiamo una situazione di guerra civile tipo quella del Ruanda o del Kossovo.
Intervenire dopo, costerebbe veramente troppo sia alla comunità internazionale,
sia anche e soprattutto in termini di vite umane.
D. – Perché un tale accanimento contro il presidente?
R. – Quello che so è che quando un popolo è portato alla
disperazione, accade questo e ad un certo punto il popolo dice di non poterne
più. Penso che questo potrebbe significare, come ci insegna il Vangelo, che uno
si offra per la salvezza di tutta la nazione invece di lasciar perire tutta la
nazione.
D. – Qual è il ruolo che si prospetta per la Chiesa nel
futuro di Haiti?
R. – La Chiesa di Haiti deve continuare ad accompagnare il
popolo di Haiti, partecipare alla sua educazione. Uno dei problemi maggiori di
Haiti è proprio la mancanza di educazione: basti pensare che più del 75 per
cento della popolazione non sa né leggere né scrivere. Questo è veramente uno
scandalo! La Chiesa può, quindi, essere un po’ più efficace nella formazione di
questo popolo. La Chiesa, però, deve anche educare alla pace, perché questo
manca, e quello di riconciliare mulatti e neri, rimane tutt’oggi ancora un
problema.
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Nuove
violenze in Medio Oriente. Due palestinesi ed un militare israeliano sono
rimasti uccisi questa mattina in uno scontro a fuoco al valico di Erez, avvenuto
proprio quando Israele ha deciso un nuovo giro di vite contro i terroristi. Intanto
gli Stati Uniti hanno condannato l’operazione israeliana nelle banche di
Ramallah perché – dicono – rischia di destabilizzare il sistema bancario
palestinese. Ma è davvero così? Risponde Marcella Emiliani, docente di Storia e
istituzioni dei Paesi del Mediterraneo, intervistata da Giada Aquilino:
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R. – Certamente è così e certamente rappresenta anche una
pesante intrusione negli affari interni palestinesi. Per quanto quello
palestinese non sia ancora uno Stato a tutti gli effetti, un’irruzione di
questo genere è una grossa violazione di quel po’ di sovranità che i
palestinesi potevano ancora avere.
D. – Perché proprio ora il blitz israeliano nelle banche
di Ramallah?
R. –
Dall’inizio della guerra contro l’Iraq si sa che i tradizionali finanziatori
del terrorismo islamico o perlomeno dei circuiti di carità islamica si erano un
po’ disseccati. Resta, comunque, che questi circuiti a tutt’oggi sono
iper-finanziati. Molto probabilmente si teme, quindi, un’intrusione di Al
Qaeda, si teme un’intrusione di altre organizzazioni che finanziano
direttamente il terrorismo.
D. – Ma ci sono delle prove che questo denaro confiscato
servisse proprio ad alimentare il terrorismo?
R. – Ovviamente no. Comunque direi che questa è anche
un’azione direttamente contro Arafat. E’ senz’altro vero che Arafat ha il
controllo di gran parte di tutti i finanziamenti che arrivano nell’Autorità
Nazionale Palestinese. Un blitz di questo genere è quindi da interpretarsi con
un’azione diretta contro Arafat.
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La Libia si è nuovamente assunta la responsabilità per
l’attentato di Lockerbie, che nel 1988 causò 270 morti. La precisazione è
giunta in un comunicato del ministro degli Esteri, Abdel Rahman Shalgham. Il
Capo della diplomazia libico ha così preso le distanze dalle dichiarazioni del
primo ministro, Shoukri Ghanem, che in un’intervista aveva parlato della non
responsabilità della Libia nell’atto terroristico, sottolineando che Tripoli
aveva accettato di pagare le famiglie delle vittime per “comprarsi la pace” e
metter fine alle sanzioni internazionali.
Forte
di 18 successi su 20 competizioni e di oltre un terzo dei delegati necessari a
garantirsi la nomination, John Kerry è pronto al Super Martedì del 2 marzo per
le primarie democratiche. Dei dieci Stati dove si voterà, solo in Georgia la
partita è aperta tra Kerry e John Edwards.
Dopo due anni, si è chiusa ieri
al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia la fase delle accuse al
processo in corso contro Slobodan Milosevic. Restavano da sentire ancora due
testi, ma l’Ufficio del procuratore non ha voluto allungare oltre i tempi, dopo
i ripetuti rinvii causati dalle condizioni di salute dell’ex presidente
jugoslavo. Milosevic è sul banco degli imputati dal febbraio del 2002 e deve
rispondere di oltre 60 capi di accusa per crimini di guerra e contro l’umanità,
commessi durante i conflitti in Croazia, Bosnia e Kosovo.
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