RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno XLVII  n. 88 - Testo della Trasmissione sabato 29 marzo 2003

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

La tragedia umana della guerra non si trasformi anche in catastrofe religiosa. Religioni e persone di buona volontà lavorino insieme per la pace. E’ il nuovo appello del Papa nel discorso ad un gruppo di vescovi dell’Indonesia in visita “ad Limina”.

 

In udienza dal Santo Padre il presidente del Parlamento slovacco, intervenuto ieri alla presentazione di un volume sulle relazioni tra la Santa Sede e gli Stati.

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Drammatica situazione negli ospedali di Baghdad al decimo giorno di guerra. Nuovi appelli e iniziative per la pace: con noi, il vescovo caldeo Emmanuel Delly, Nicoletta Dentico e il prof. Antonio Maria Baggio.

 

L’Africa che guarda al futuro, in un Convegno internazionale ad Ancona: intervista con Eugenio Melandri.

 

CHIESA E SOCIETA’:

Su Chiesa e informatica, un Congresso continentale americano in Messico dal 2 aprile.

 

Infame traffico di bambini addestrati alla guerra in Uganda. Circa 5 mila minori rapiti dai ribelli negli ultimi mesi, secondo Human Rights Watch.

 

“La vita che passione”: questo il titolo dello spettacolo teatrale che i ragazzi di Villa Glori, la casa famiglia per i malati di Aids, metteranno in scena mercoledì prossimo a Roma.

 

Lo scorso 27 marzo è morto padre Arpa, il gesuita studioso di cinema che difese Federico Fellini dagli attacchi rivolti al celebre film “La dolce vita”.

 

In Colombia continuano le uccisioni di civili ad opera sia dei ribelli che delle forze regolari. Lo ha denunciato ieri la Commissione vita, giustizia e pace della diocesi di Quibdò.

 

24 ORE NEL MONDO:

E’ un medico italiano l’ultima vittima della polmonite atipica.

 

Serbia sotto shock dopo il ritrovamento del corpo dell’ex presidente Stambolic.

 

Oggi a Pretoria la firma del protocollo sulla gestione della sicurezza nella Repubblica Democratica del Congo.

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

29 marzo 2003

 

 

“NON SI DEVE MAI AMMETTERE CHE LA GUERRA DIVIDA LE RELIGIONI”.

“NON POSSIAMO PERMETTERE  CHE UNA TRAGEDIA UMANA

DIVENTI ANCHE UNA CATASTROFE RELIGIOSA”.

COSI’ IL PAPA AI VESCOVI DELL’INDONESIA,

UN PAESE A LARGA MAGGIORANZA MUSULMANA

- Servizio di Carla Cotignoli -

 

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“In questo momento di grande tensione nell’intera comunità mondiale” il Papa ha ribadito che “non si deve mai ammettere che la guerra divida le religioni”, ed ha incoraggiato i vescovi dell’Indonesia, ricevuti questa mattina in Vaticano per la quinquennale visita canonica, a “cogliere proprio questo momento di gravi sconvolgimenti”, come “un’occasione per lavorare fraternamente, insieme a tutto il  popolo, con i fedeli delle altre religioni e con tutti gli uomini e donne di buona volontà per assicurare comprensione, cooperazione e solidarietà”. Giovanni Paolo II ha ancora affermato: “Non possiamo permettere che una tragedia umana diventi anche una catastrofe religiosa”. Qui è chiaro il riferimento alla guerra in Iraq e ai timori di uno scontro di civiltà e religioni. 

 

E’ una consegna particolarmente significativa quella  affidata ai vescovi di un Paese, a grande maggioranza musulmana, in cui - come ha ricordato il Papa - “la comunità cristiana ha sofferto discriminazione e pregiudizi, è stata vittima di atti di distruzione e vandalismo”, un Paese che a Bali,  ha subito il terribile attentato terrorista che ha provocato molte vittime.  Il Santo Padre II ha messo in guarda: “Non si deve cadere nella tentazione di generalizzare le azioni di una minoranza estremista. L’autentica religione – ha affermato – non appoggia terrorismo e violenza, ma cerca di promuovere in ogni modo l’unità e la pace dell’intera famiglia umana”.

 

Il Papa, sin dalle prime battute del suo discorso, aveva riconosciuto ai vescovi indonesiani “un ruolo di avanguardia nel promuovere la pace e l’armonia in un Paese composto da così tanti gruppi”. Si contano infatti in circa 300 le etnie. “Unità nella diversità  ha ricordato - è iscritto nello stemma stesso che contraddistingue l’Indonesia”.  E guardando alle differenze etniche e culturali degli stessi vescovi  indonesiani, ha osservano che “nell’atmosfera di fede, dialogo e fiducia reciproca possono loro stessi offrire un modello di speranza per tutta l’Indonesia”.

 

Molti altri poi sono stati i temi trattati dal Papa: dall’opera di inculturazione per evitare che il cattolicesimo “sia visto con sospetto”, all’importanza del dialogo interreligioso di cui ha riconosciuto il notevole livello già in atto nel Paese. Ancora Giovanni Paolo II ha trattato del consolidamento della democrazia nel Paese, della libertà religiosa garantita dalla Costituzione. E ancora è passato a parlare della particolare attenzione dovuta ai poveri, alla famiglia, alla formazione permanente dei sacerdoti. Un’annotazione particolare tocca l’apporto dei religiosi e delle religiose che – ha detto – “devono essere guida nella ricerca di Dio a cui è particolarmente sensibile l’Asia così ricca di forme di spiritualità e di ascetismo”.

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ALTRE UDIENZE E RINUNCIA IN INDIA

 

Il Papa ha ricevuto in udienza questa mattina il presidente del Parlamento della Repubblica Slovacca, Pavol Hrusovsky, con le persone del seguito.

 

Il presidente Hrusovsky ha partecipato ieri, presso il Pontificio Istituto Orientale, alla presentazione del volume “Relazioni internazionali giuridiche bilaterali tra la Santa Sede e gli Stati: esperienza e prospettive”. Il volume raccoglie gli atti del Convegno sullo stesso tema svoltosi a Roma il 12 e il 13 dicembre 2001, per iniziativa dell’Ambasciata slovacca presso la Santa Sede. Alla presentazione hanno partecipato il cardinale Jozef Tomko, prefetto emerito della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, l’arcivescovo Jean Louis Tauran, segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, ed altre personalità.

 

In fine mattinata, il Santo Padre ha inoltre ricevuto il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi.

 

Il Pontefice ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’eparchia di Tiruvalla dei Siro-Malankaresi, nello Stato indiano del Kerala, presentata da mons. Geevarghese Mar Timotheos, per limiti di età.

 

 

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

“Mai la guerra divida le religioni del mondo”  è il titolo che apre la prima pagina: in un momento sconvolgente per la comunità mondiale, Giovanni Paolo II incoraggia i vescovi dell’Indonesia a cooperare, come fratelli impegnati per la pace, con le comunità di altre fedi religiose.

Al centro della prima pagina, campeggia la frase “La strage nel mercato”, stagliata su una foto che ritrae il viso di un ragazzo, drammaticamente segnato dalle “cicatrici” della guerra.

Numerosi morti e feriti nella strage del mercato di al Nasser a Shola, alla periferia di Bagdad.

 

Nelle vaticane, un approfondito contributo del cardinale Lopez Trujillo dal titolo: “Partial-birth abortion”: da un crimine disumano all'umanizzazione.

Le iniziative per la pace promosse nelle diocesi italiane.

 

Nelle pagine estere, il dettagliato resoconto della situazione umanitaria in Iraq.

Gli alleati riorganizzano lo schieramento militare. Cresce la protesta in tutti i Paesi islamici.

 

Nella pagina culturale, un contributo di Francesco Licinio Galati dal titolo “Un editore al servizio della Verità”: scritti di don Valentino Gambi raccolti in un volume.

Nelle pagine italiane, in primo piano la situazione politica in riferimento alla crisi irachena. Decretato lo stato d'emergenza nazionale: un atto dovuto, precisa il Governo, ma che "non tranquillizza certo l'opinione pubblica di un Paese dichiaratamente non belligerante".

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

29 marzo 2003

 

 

BOMBARDAMENTI A TAPPETO SU BAGHDAD E COMBATTIMENTI CRUENTI

IN MOLTE ZONE DELL’IRAQ.

LE FORZE ALLEATE SI RIORGANIZZANO IN VISTA DELL’ATTACCO ALLA CAPITALE,

NELLA QUALE SI AGGRAVA LA SITUAZIONE SANITARIA.

MANIFESTAZIONI ED APPELLI DI PACE IN TUTTO IL MONDO

- A cura di Alessandro De Carolis -

 

No alla nuova risoluzione dell'Onu “petrolio contro cibo”. L’Iraq, per bocca del suo ministro dell'informazione, Mohammed Saeed al Shahaf, ha rigettato qualche ora fa la proposta delle Nazioni Unite, rispedendo al mittente la possibilità di trovare un’opzione non armata al conflitto in corso. Intanto, le immagini drammatiche del decimo giorno di guerra mostrano Baghdad sotto un diluvio incessante di bombe e missili. Ma anche la morte di cinque soldati americani uccisi a Najaf, in seguito ad un taxi-bomba guidato da un kamikaze. O i cinquanta uomini della Guardia repubblicana - il reparto militare d’èlite di Saddam Hussein - uccisi dai raid degli elicotteri da guerra statunitensi Apache. Dal punto di vista strategico, l’offensiva militare angloamericana prosegue, con alterne vicende, diretta al cuore del potere iracheno ed il comando generale in Qatar spiega di essere in procinto di ridisegnare, nei prossimi 5-6 giorni, la dislocazione sul campo di uomini e mezzi. Ma la constatazione di una campagna bellica tutt’altro che facile sta cominciando a incrinare, negli Stati Uniti, il consenso popolare nei riguardi della Casa Bianca. Il servizio di Paolo Mastrolilli:

 

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L’offensiva di terra sembra quasi ferma, in attesa del probabile attacco alla capitale, e cominciano ad alzarsi diverse voci che criticano i piani di guerra. Anche il generale che comanda le truppe di terra ha detto che la resistenza degli iracheni era stata sottovalutata e questo potrebbe allungare il conflitto oltre i tempi previsti da Washington. Il presidente Bush ha riposto alle critiche, affermando che le forze americane ed inglesi stanno facendo progressi. Washington ha detto anche di aver debellato due cellule di agenti iracheni, che preparavano attacchi contro interessi americani all’estero. Mentre per la prima volta ieri,un missile ha colpito Kuwait City, senza però fare vittime. Infine, una notizia dal fronte Onu, dove ieri era stata approvata all’unanimità la ripresa del programma “Petrolio per cibo” a scopo umanitario in favore dell’Iraq: il capo degli ispettori sul disarmo, Hans Blix, invece ha annunciato che lascerà l’incarico a giugno.

 

Da New York, per la Radio Vaticana, Paolo Mastrolilli.

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Sul fronte opposto della guerra, la resistenza offerta dalle truppe regolari e irregolari dell’Iraq è sempre determinata, anche in zone sulle quali le forze alleate hanno da tempo esteso il controllo. Come ad esempio a Nassiriya, teatro oggi di un nuovo attacco dei marines. O a Kirkuk, nel nord, dove, pur ripiegando, gli iracheni hanno dato fuoco  ad alcuni pozzi di petrolio. Nel suo aggiornamento quotidiano, il ministro dell’Informazione iracheno - la cui sede ministeriale è stata pesantemente bombardata nelle ultime ore -  ha anche definito “propaganda di basso costo” quella che accusa i soldati del regime di far uso di tattiche di guerriglia e “un atto da codardi” la strage del mercato di ieri, dove 51 civili e 49 sono rimasti feriti in seguito ad una esplosione. Episodio, questo, sul quale il comando alleato non si è pronunciato in attesa di informazioni. Saeed al Shahaf ha poi parlato di Bush e Blair come di “criminali di guerra” e ha riferito di 140 morti e 350 feriti nelle ultime 24 ore. I bombardamenti, dunque, colpiscono sempre più duramente la capitale e i vescovi cattolici non si stancano di lanciare appelli. Francesca Sabatinelli ha raggiunto a Baghdad il vescovo ausiliare emerito di Babilonia dei Caldei, Emmanuel Delly:

 

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R. - Tutta la notte ci sono stati bombardamenti di missili. Stamattina hanno bombardato il centro delle comunicazioni, a 150 metri dalla Nunziatura apostolica. Ma ringraziamo il Signore, stiamo bene. Il centro delle comunicazioni è rovinato, ed ora le comunicazioni sono interrotte a Baghdad. Da una parte all’altra, non c’è più comunicazione.

 

D. - Mons. Delly, ci parli dei civili …

 

R. - Dall’inizio della guerra fino ad oggi, secondo il portavoce iracheno, sono 350 i civili morti. E i soldati non si contano, poveretti. Sicuramente saranno molti. I feriti sono più di 3-4 mila.

 

D. - Mons. Delly, cosa fa in queste ore la popolazione? Resta nelle proprie case?

 

R. – La gente non può uscire. C’è paura che cada un missile, un aeroplano … E’ pericoloso avventurarsi di fuori. Così ci hanno detto. Io, insieme a mons. Warduni e al nunzio apostolico, siamo andati a visitare tutte le nostre parrocchie a Baghdad, per incoraggiare la gente. E quando ci vedono si sentono un po’ più confortati. Molti dei nostri sono partiti e si sono recati nei loro villaggi al nord. Ma anche lì stanno male, perché i villaggi adesso sono affollati.

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Un’analoga immagine di Baghdad è quella che emerge dalla descrizione dei Medici senza frontiere, uno degli organismi umanitari presenti in forze nei punti caldi del conflitto iracheno. Dopo gli ultimi raid sulla capitale, il lavoro sanitario sta facendosi più duro, come conferma il direttore generale di Medici senza frontiere, Nicoletta Dentico, intervistata da Benedetta Capelli:

 

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R. – Il resoconto dei medici che stanno lavorando all’Alkindi Hospital, nel nordest della capitale, conferma questa drammatica realtà, con l’arrivo di molti morti e moltissimi feriti. Di fatto, stiamo lavorando a pieno regime. Fortunatamente, sono arrivati ieri mattina due tir contenenti dieci tonnellate di materiali chirurgici, di kit per le chirurgie, di kit per l’utilizzo dell’acqua e altre cose, e quindi in questo momento possiamo lavorare con disponibilità del materiale.

 

D. – Com’è la situazione negli ospedali iracheni?

 

R. – Noi possiamo parlare soltanto per quello dove operiamo - l’Alkindi Hospital, appunto - che ha 250 letti ed è uno dei più grandi di Baghdad. Fino a qualche giorno fa, la situazione era abbastanza sotto controllo, nel senso che il personale sanitario lavorava, ma ciò che mancava erano le attrezzature: i fili di sutura, le bende, le fasce, gli strumenti basilari di lavoro. Per questo, i nostri team hanno immediatamente chiesto da Amman il rifornimento con materiali medici. Certo che, negli ultimi giorni, anche dal punto di vista delle vittime, l’emergenza è cresciuta.

 

D. – Si possono fare delle stime?

 

R. – No. E’ molto difficile in questo momento fare delle stime, perché ovviamente noi stiamo lavorando in uno specifico contesto ed abbiamo più o meno la fotografia di quello che succede lì: la nostra rappresentazione della situazione è sicuramente parziale e poi va tenuto conto che, purtroppo, evolve di ora in ora.

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Ha avuto un epilogo positivo la vicenda dei sette giornalisti italiani che ieri erano stati fermati dai soldati iracheni ad un posto di blocco, mentre tentavano di entrare a Bassora. Dopo una notte senza notizie sulla loro sorte, stamani alcuni di loro hanno telefonato alle rispettive redazioni in Italia, affermando di essere liberi e di trovarsi in un hotel di Baghdad. In precedenza, l’ambasciatore iracheno a Mosca, Abbas Khalaf, aveva detto che ai cronisti sarebbe stato rilasciato un visto per continuare a svolgere il loro lavoro in Iraq.

 

Dopo gli appelli del presidente del Parlamento europeo, Pat Cox, e della Commissione europea, Romano Prodi, a ritrovare l’unità continentale messa in crisi dalla Guerra del Golfo, da Parigi è giunto stamani un segnale di distensione. L’Eliseo ha reso noto che oggi, nel corso di una telefonata, il presidente francese Chirac e il primo ministro britannico Blair si sono detti d’accordo sul fatto che “Francia e Gran Bretagna lavorino strettamente insieme” sul dopoguerra in Iraq. Nel mondo, intanto, le manifestazioni contro la guerra si susseguono e ampliano anch’esse il proprio fronte. Anche la Cina ha concesso la possibilità di scendere in piazza, anche se a gruppi di non più di un centinaio di persone, per protestare contro il conflitto iracheno. Da Washington a Teheran, dalla Germania al Pakistan, cortei di pacifisti hanno invocato la fine della guerra.

 

Numerose anche in Italia proteste e gli appelli. Come quello contenuto nella petizione che un cartello di associazioni cattoliche - tra le quali Azione Cattolica, Acli, Agesci, Pax Christi - ha indirizzato al governo e ai parlamentari di ogni schieramento e ai responsabili politici europei, chiedendo "un cessate il fuoco che ponga termine all’inutile strage in Iraq” e un rafforzamento dell’egida dell’Onu in caso di conflitti armati. Sulle ragioni della pace, sempre difese dal Papa, contro il ricorso alle armi come mezzo di ripristino dell’ordine, ascoltiamo il parere di Antonio Maria Baggio, docente di etica politica all’a Pontificia Università Gregoriana, al microfono di Luca Collodi:

 

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E’ giusto rifarsi al Catechismo proprio perché è stato invocato, specialmente da alcuni gruppi di cattolici statunitensi, per sostenere il contrario di ciò che afferma il Papa: e cioè che questa guerra avrebbe le caratteristiche di essere ritenuta “giusta”. Ora, la dottrina cattolica dice che, per giustificare dal punto di vista etico un intervento armato, bisogna trovarsi di fronte ad un pericolo molto grave, attuale - che sta già accadendo, quindi, o che è accaduto - e che all’intervento armato si deve ricorrere solo dopo che tutte le altre possibili strade per riparare il male e per impedire che esso si ripeta sono state sperimentate e si siano rivelate inefficaci o impraticabili. Poi, ci vuole anche una proporzionalità tra il male che l’intervento vuole evitare o riparare e quello che invece, per forza di cose, un intervento armato viene a provocare. E poi bisogna tener conto anche degli effetti di ciò che si produce alla lunga sulle generazioni, sui divari che possono nascere tra i popoli. Dunque, non ci sono le caratteristiche per dire che questa è una guerra giusta. E lo afferma il Papa che, naturalmente, ha la rappresentanza ufficiale, la capacità ed il ruolo di interpretazione dottrinale.

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Il conflitto in Iraq e la dottrina della guerra preventiva contro i cosiddetti “Stati canaglia”, giudicati pericolosi per la sicurezza di un Paese, potrebbe rilanciare la corsa agli armamenti, convenzionali e non, e la necessità di un arsenale fornito non più solo come deterrente. Ascoltiamo il parere del segretario generale di Archivio Disarmo, Fabrizio Battistelli, nell’intervista di Stefano Lezczynski:

 

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R. – E sicuramente  in tema di armamenti si andrà verso una radicalizzazione del conflitto, anche se è un conflitto solo potenziale che molti Paesi hanno con i propri vicini o potenzialmente persino con gli Stati Uniti. E l’Iran, per esempio, è un testimone interessato e coinvolto della guerra in Iraq, quindi sicuramente questo processo potrebbe anche dare vita ad una mini corsa agli armamenti regionale. Certamente questo sarà l’effetto che avrà, per esempio, sulla Siria, Paese che è molto esposto e che, a differenza dell’Iran, invece, è amico dell’Iraq.

 

D. – Fa un po’ impressione l’idea che questa corsa al riarmo possa avvenire proprio in quegli Stati che vengono definiti o identificati come ‘Stati-canaglia’. Lei cosa ne pensa?

 

R. – Penso che questo non è sorprendente perché è chiaro che nel momento in cui ci si sente nel mirino, le reazioni sono due: o c’è la reazione della resa, o c’è la reazione del rafforzamento militare. Un caso, direi, paradossale, eclatante è quello della Corea del Nord. Qui, addirittura, abbiamo l’opposto: abbiamo uno Stato che sta cercando di attirare l’attenzione degli Stati Uniti sul fatto che costruisce l’arma nucleare.

 

D. – Non si sa bene quale tipo di armamenti potrebbe svilupparsi maggiormente, se quelli convenzionali oppure quelli non-convenzionali ...

 

R. – Nel caso della Corea del Nord è chiarissimo; mentre sull’Iraq di Saddam abbiamo tuttora dei dubbi, se il regime possedesse armi di sterminio di massa, certamente le possiede o le sta mettendo a punto la Corea del Nord.

 

D. – L’Italia produce ed esporta molte armi?

 

R. – L’Italia ha una sua produzione di una certa importanza, tecnologicamente abbastanza avanzata, ad un livello medio, diciamo, con una base industriale non enorme ma significativa. Il vero problema dell’industria militare italiana è la sua direzione politica, cioè a tutt’oggi questa è un’industria che non riceve precise direttive e strategie da chi dovrebbe farlo, cioè dal governo, e non solo da questo governo, per essere sinceri fino in fondo.

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L’AFRICA CHE GUARDA AL FUTURO IN UN CONVEGNO INTERNAZIONALE AD ANCONA

- Intervista con Eugenio Melandri -

 

Guardare all’Africa che si alza in piedi e che si organizza per migliorare il proprio futuro. Questo il messaggio che il convegno internazionale “Africa in piedi”, in corso ad Ancona da ieri a domani, si propone di trasmettere. Ce ne parla, al microfono di Dorotea Gambardella, Eugenio Melandri, presidente dell’Associazione “Chiama l’Africa”:

 

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R. – L’anno scorso abbiamo detto che per cooperare con l’Africa dobbiamo smetterla con gli aiuti e dobbiamo promuovere i diritti. Quest’anno diciamo: “Per cooperare con l’Africa, bisogna guardare l’Africa che si alza in piedi, la società civile che cresce, che si organizza; cooperare significa mettersi in relazione tra gruppi umani, gruppi dell’Europa con gruppi dell’Africa a tutto campo”.

 

D. – Che cosa deve cambiare nel mondo, perché l’Africa migliori la propria situazione?

 

R. – Rimettere in sesto tutti gli organismi di carattere economico-commerciale che esistono nel mondo e che fanno tornare i conti solo nelle tasche dei ricchi.

 

D. – Si parla sempre delle responsabilità dell’Occidente. Ma l’Africa ha delle responsabilità, e quali?

 

R. – Ma certo che l’Africa ha delle responsabilità, soprattutto nelle sue classi dirigenti che forse, anche a causa della colonizzazione, sono arrivate spesso impreparate al potere; gruppi dirigenti spesso corrotti, dittatoriali, gente che fa i propri interessi invece che fare l’interesse pubblico; così come è responsabilità dell’Africa, molto spesso, tanta incapacità di uscire, di dialogare al di fuori del proprio gruppo etnico. Ci sono anche delle responsabilità di carattere culturale, manca l’idea del risparmio ... Ci sono varie cose. Però, sono piccole cose in confronto ad una serie di responsabilità globali che ci portiamo avanti da cinquecento anni!

 

D. – Che cosa, invece, può fare il singolo individuo?

 

R. – Possiamo impegnarci perché, a cominciare dal piccolo, già dai Comuni, ci mettiamo in relazioni umane con situazioni del continente africano e dei Paesi più poveri, ma per scambi di carattere umano, non per fare l’elemosina!

 

D. – L’attenzione del mondo è concentrata sulla guerra contro l’Iraq: quanto essa sta oscurando le guerre che da decenni si combattono in Africa?

 

R. – Ma, vede, erano già dimenticate prima, continuano ad essere dimenticate anche oggi. Forse questo fatto di scontrarsi con una guerra, con tanto carico di sofferenza, ci può aiutare a dire che in Africa, soprattutto, queste sofferenze sono pane quotidiano. Si parla della gente che fugge da Bassora perché non c’è l’acqua: io ricordo donne africane che fanno 20, 25 chilometri al giorno per andare a prendere una ciotola d’acqua ...

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CHIESA E SOCIETA’

29 marzo 2003

 

 

 “VERSO UNA RETE UMANA DI RISPOSTE ED AIUTI”.

E’ IL TEMA DEL CONGRESSO CONTINENTALE AMERICANO SU CHIESA E INFORMATICA

IN PROGRAMMA DAL 2 AL 5 APRILE A MONTERREY, IN MESSICO

 

MONTERREY. = “Verso una rete umana di risposte e di aiuti” è il titolo del Congresso continentale americano su Chiesa e informatica che si svolgerà dal 2 al 5 aprile nella città messicana di Monterrey. L’incontro, organizzato dal Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, dal Celam e dalla Conferenza episcopale messicana, è rivolto a religiosi, intellettuali, esperti di comunicazione ed operatori pastorali. Il congresso costituirà uno spazio di confronto sulle nuove tecnologie della comunicazione e sulle strategie che la Chiesa può adottare nell’uso dello strumento informatico ai fini dell’evangelizzazione. Obiettivo dell’incontro è quello di avviare un cammino di collaborazione e di scambio attraverso l’affermazione di una cultura digitale all’insegna della solidarietà e dell’aiuto reciproco. Dal dibattito, a cui parteciperà il cardinale Darío Castrillón, prefetto della Congregazione per il clero, si attende l’individuazione di quei criteri che orientino il processo di informatizzazione dei diversi organismi ecclesiali. Gli interventi proporranno spunti di riflessione su diverse tematiche quali l’interattività, l’etica delle comunicazioni, l’evangelizzazione nell’era informatica e la globalizzazione delle comunicazioni. Si parlerà anche di integrazione digitale e di riduzione della distanza tra “info-poveri” ed “info-ricchi”, una lontananza questa, che separa sempre più in base all’accesso all’informazione. (A.L.)

 

 

IN UGANDA SONO CIRCA CINQUE MILA I BAMBINI RAPITI DAI RIBELLI

NEGLI ULTIMI DIECI MESI. LO RENDE NOTO HUMAN RIGHTS WATCH,

ORGANIZZAZIONE AMERICANA PER I DIRITTI UMANI


KAMPALA. = N
el nord dell’Uganda cinquemila bambini sono stati rapiti negli ultimi 10 mesi dai ribelli dell'Esercito di resistenza del signore (Lra). Il triste bilancio è stato rilasciato da Human Rights Watch (Hrw), organizzazione americana per i diritti umani. Dallo scorso anno l'esercito ugandese ha lanciato una campagna conosciuta con il nome di “pugno di ferro” che avrebbe dovuto eliminare definitivamente dalla scena gli uomini di Joseph Kony, il fondatore dello Lra. “La situazione attuale dimostra invece che questa operazione è stata un  totale insuccesso”, ha detto alla Misna padre Carlos Rodriguez Soto, segretario della Acholi religious leaders peace initiative (Arpli). L’imponente operazione militare permetteva ai militari di Kampala di attraversare i confini ugandesi per dare la caccia ai ribelli anche nel territorio sudanese. “I livelli di sicurezza in tutto il nord Uganda – ha detto padre Rodiguez Soto - non sono aumentati e, come dimostrano i dati dei rapimenti, la situazione è anzi peggiorata”. “Ogni giorno – ha aggiunto il religioso - viene presentato un bilancio ufficiale in cui l’esercito ugandese sostiene di aver ucciso un alto numero di ribelli ma  spesso viene taciuto che si tratta dei bambini rapiti”. Dopo averli addestrati, le formazioni dei ribelli li utilizzano in prima linea negli attacchi più rischiosi e sono proprio queste vittime innocenti le prime a cadere. Nel rapporto diffuso ieri, Hrw sottolinea inoltre come anche l’esercito regolare utilizzi di frequente i “bambini-soldato”. L'Arlpi nei giorni scorsi ha inviato una lettera alle autorità ugandesi chiedendo di porre fine all'arruolamento dei giovani, spesso anche minorenni, che decidono di abbandonare lo Lra. I ragazzi che decidono di lasciare le uniformi dei ribelli vengono infatti invitati a vestire quelle dell'esercito, dal momento che hanno già un addestramento e che soprattutto conoscono bene il nemico. (A.L.)

 

 

“LA VITA CHE PASSIONE”. E’ IL TITOLO DELLO SPETTACOLO TEATRALE CHE I RAGAZZI

DI VILLA GLORI, LA CASA FAMIGLIA PER MALATI DI AIDS, METTERANNO IN SCENA

MERCOLEDÌ PROSSIMO A ROMA PER RACCONTARE LA STORIA DI PERSONE

COLPITE DALLA MALATTIA

 

ROMA. = Uno spettacolo teatrale per far conoscere la storia di persone che hanno sperimentato i lati oscuri e drammatici dell’esistenza, quali la droga, la violenza, l’emarginazione ed il carcere. È l’iniziativa promossa dalla Caritas diocesana di Roma, che mercoledì prossimo alle ore 17.30, permetterà ai ragazzi della Casa famiglia per malati di Aids di Villa Glori di mettere in scena lo spettacolo "La vita, che passione". "Lo spettacolo, scritto e diretto da Massimo Raimondi, responsabile della Casa famiglia, è uno dei modi con cui gli ospiti di Villa Glori - informa la Caritas diocesana - cercano di far conoscere la loro storia mostrando come il problema dell’Aids sia costituito solo per metà da un virus"."L’altra grave questione legata all’Aids – afferma Massimo Raimondi - è lo stigma sociale che la malattia porta con sé, una sofferenza psicologica e spirituale spesso più devastante di quella fisica". La Casa famiglia per malati di Aids è nata il 5 dicembre del 1988, quando la diffusione del virus era ancora agli inizi e tante persone, le più povere, morivano per strada o abbandonate in un letto di ospedale. La Caritas, scontrandosi con la diffidenza e la paura, riuscì nel suo intento di aprire una Casa per accogliere dignitosamente i malati. Il servizio che viene dato agli ospiti prevede assistenza sociale e spirituale. Attraverso lo sviluppo della creatività personale e di relazioni affettive significative, vengono anche offerti stimoli continui in modo da rendere la vita quotidiana carica di senso. (A.L.)

 

 

E’ MORTO LO SCORSO 27 MARZO PADRE ANGELO ARPA,

IL GESUITA STUDIOSO DI CINEMA

CHE DIFESE FEDERICO FELLINI DAGLI ATTACCHI

RIVOLTI AL CELEBRE FILM “LA DOLCE VITA”

- A cura di padre Virginio Fantuzzi -

 

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ROMA. = Il padre Angelo Arpa è nato a Castelfranco Veneto il 21 marzo del 1909. Aveva compiuto 94 anni pochi giorni prima di morire. Era entrato nella provincia Torinese della Compagnia di Gesù all’età di 16 anni. Ordinato sacerdote nel 1940, era stato un eccellente padre spirituale dell’Istituto Arecco di Genova, dove aveva avuto la possibilità di orientare diversi giovani alla Compagnia di Gesù. Scoprì il cinema nell’immediato dopoguerra come strumento di apostolato. Fondò prima un cineforum e successivamente l’Istituto Columbianum, che svolgeva un’attività culturale di ampio respiro internazionale ed era il primo luogo dove fosse possibile vedere in Europa i film brasiliani del cinema novo. Fondò anche una Casa di produzione cinematografica, la Golden Star, che produsse un film di Roberto Rossellini, dal titolo “Era notte a Roma”. Padre Arpa era poco cauto nella gestione economica di queste istituzioni, per cui accumulò molti debiti che lo misero in difficoltà nei confronti della Compagnia di Gesù, che si trovò a gestire una situazione difficile nei suoi confronti. Nutrì per tutta la vita un’amicizia fraterna con Federico Fellini. Aveva combattuto insieme ad altri confratelli gesuiti del Centro San Fedele di Milano la grande battaglia della “Dolce Vita”. Si trattava di riconoscere all’interno di un film molto discusso dei valori non soltanto artistici ma anche di carattere morale e perfino religiosi. Fu apprezzato, oltre che dal suo amicissimo Federico Fellini, anche da altri registi come Roberto Rossellini e Pier Paolo Pasolini che si sentiva da lui capito e difeso fino dai tempi di “Accattone”. Caratteristica di padre Arpa era stato l’intuito con il quale sapeva cogliere fermenti spirituali e palpiti religiosi nel cinema di qualità anche quando espressi in termini problematici. Fu stato un sacerdote d’assalto, sempre un po’ fuori dai ranghi e comunque sempre in prima linea. Può essere definito sicuramente un uomo di Dio, ma allo stesso tempo è stato un figlio del suo secolo. I funerali di padre Arpa saranno celebrati lunedì prossimo alle ore 15 presso la chiesa di Sant’Ignazio.

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CONTINUANO IN COLOMBIA LE UCCISIONI DI CIVILI AD OPERA SIA DEI RIBELLI

CHE DELLE FORZE REGOLARI. LO HA DENUNCIATO IERI

LA COMMISSIONE VITA, GIUSTIZIA E PACE DELLA DIOCESI DI QUIBDÒ

 

BOGOTÀ. = Non si fermano in Colombia i massacri di civili, sia da parte dei gruppi armati ribelli che per mano delle stesse forze regolari. Torna a denunciarlo con forza la Commissione vita, giustizia e pace della diocesi di Quibdó. In una nota, pervenuta ieri all’Agenzia missionaria Misna, la Commissione riferisce che la scorsa settimana Leonel Rentería, un contadino di Yarumal-Lloro è stato assassinato da soldati del battaglione Manosalva Flores mentre era al lavoro nei campi. “I militari, si legge nel comunicato, lo hanno spogliato dagli abiti civili e lo hanno rivestito con l’uniforme dei guerriglieri affermando che era un ribelle ucciso in combattimento”. Dopo questo episodio c’è grande timore tra la popolazione e si corre il rischio di una fuga di massa delle comunità. Anche i gruppi guerriglieri continuano ad attentare alla vita dei civili: il 29 gennaio i combattenti dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln) hanno ucciso un uomo e una donna a Campo Bonito, mentre il 1 marzo il fronte le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno assassinato un altro civile a Tanguí. Di fronte a questo scenario drammatico, la Commissione chiede un’investigazione rigorosa su questi fatti affinché i responsabili di queste violazioni vengano consegnati alla giustizia. (A.L.)

 

 

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24 ORE NEL MONDO

29 marzo 2003

 

 

- A cura di Paolo Ondarza -

 

E’ italiana l’ultima vittima della polmonite atipica che ha già provocato la morte di 54 persone e 1485 contagi in tutto il mondo. Si tratta di un medico marchigiano morto stamani a Bangkok, in Thailandia. Lo ha comunicato ufficialmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il Paese più colpito dal virus che sta allarmando il globo, resta la Cina.

 

Una buona notizia: oggi verrà firmato il protocollo definitivo sulla gestione della sicurezza nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). L’incontro tra tutti i protagonisti della crisi avverrà a Pretoria in Sudafrica, dove sarà sottoscritto un accordo sulla struttura militare. Secondo fonti informate, nonostante le divergenze passate, le parti avrebbero ormai raggiunto un compromesso.

 

Ad oltre due anni e mezzo dalla sua scomparsa, sono stati ritrovati ieri sulle colline a nord di Belgrado i resti dell’ex presidente serbo Ivan Stambolic, rapito nell’agosto del 2000 dagli stessi criminali che, due settimane fa, hanno ucciso il premier Zoran Djindjic. Ricostruisce per noi la vicenda dell’ex leader, Emiliano Bos.

 

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A sequestrare l’ex presidente della Serbia furono i berretti rossi, le famigerate unità speciali della polizia dell’epoca di Milosevic, come ha spiegato ieri in una Conferenza stampa il ministro degli interni serbo. Stambolic, che fu il padrino politico di Milosevic, venne ucciso perché avrebbe potuto candidarsi alle presidenziali proprio contro il suo ex-delfino, divenuto ormai l’uomo forte dei Balcani. Sembra inoltre che le autorità di Belgrado siano riuscite a far luce su questo omicidio grazie ad un pentito finito in carcere in questi giorni nella gigantesca caccia all’uomo lanciata all’indomani dell’omicidio del primo ministro Djindjic, ucciso a Belgrado il 12 marzo. Le autorità ne hanno catturato il killer e hanno smantellato le unità speciali della polizia segreta. L’altra notte, in un conflitto a fuoco, è rimasto ucciso Dusan Spasojevic, autore del rapimento di Stambolic e considerato anche uno dei mandanti dell’assassinio del premier serbo.

 

Per la Radio Vaticana, Emiliano Bos.

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Non si fermano le violenze in Medio Oriente: ieri due palestinesi sono stati uccisi dai reparti speciali di Israele a Tulkarem, in Cisgiordania e nel villaggio di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. In quest’ultima località sempre ieri i reparti speciali israeliani hanno demolito la casa di un militante dell’Intifada, accusato di un attacco ad un insediamento ebraico lo scorso anno. Arrestati anche tre palestinesi.

 

E dal Nepal potrebbero giungere buoni segnali: gli attesi colloqui di pace tra ribelli maoisti e governo nepalese inizieranno martedì prossimo. Lo ha fatto sapere ieri il capo della delegazione governativa incaricata dei negoziati, Narayan Singh Pun. Si attende ancora la conferma della data da parte degli estremisti, ma la presenza del loro leader Baburam Bhattarai nella capitale Katmandu lascia supporre che la data di partenza dei negoziati sia vicina.

 

 

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DOMANI TORNA L’ORA LEGALE

 

 

Alle ore 2.00 di domenica 30 marzo,

entrerà in vigore l'ora estiva europea,

con conseguente spostamento delle lancette degli orologi

in avanti di un'ora. L'ora legale resterà in vigore

 fino alla notte tra il 25 e il 26 ottobre.

Non vi saranno cambiamenti di rilievo

per il nostro Radiogiornale, che andrà in onda alle stesse ore.