RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno XLVII  n. 82 - Testo della Trasmissione domenica 23 marzo 2003

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

A gran voce, all’Angelus di stamani in Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II invoca nuovamente il dono della pace in queste ore di guerra e si dice spiritualmente vicino alle vittime del conflitto e ai loro familiari. In precedenza, beatificati solennemente dal Papa cinque Servi di Dio

 

La difesa della fede nei media e la loro evangelizzazione: questo il tema della plenaria del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali, da domani in Vaticano.

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

L’offensiva angloamericana incontra notevole resistenza da parte irachena. Baghdad parla di una settantina di morti a Bassora, di velivoli abbattuti e di prigionieri. Il Pentagono non conferma. Continuano le manifestazioni dei pacifisti nelle principali capitali mondiali. Ai nostri microfoni: Laura Boldrini, Marco Bertotto, Hevi Dilara, Fausto Biloslavo e la testimonianza di un esule curdo-iracheno.

 

CHIESA E SOCIETA’:

Inizia domani, a Roma, il Consiglio episcopale permanente della Cei, introdotto dal cardinale Camillo Ruini

 

Il governo turco di Erdogan ottiene la fiducia del Parlamento

 

La Slovenia alle urne per il referendum sull’adesione all’Unione Europea e alla Nato

 

Anche la Cecenia al voto sulla nuova Costituzione voluta da Mosca

 

Israele ricorre agli Usa per sanare il deficit pubblico: chiesto un prestito di 10 miliardi di dollari

 

Presentato dal regista italiano Gabriele Salvatores il suo ultimo film “Io non ho paura”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

23 marzo 2003

 

ALL’ANGELUS, IL PAPA CHIEDE A GRAN VOCE “IL DONO DELLA PACE”

E PREGA PER LE VITTIME DI GUERRA E I LORO FAMILIARI,

AL TERMINE DELLA CERIMONIA DI BEATIFICAZIONE DI CINQUE SERVI DI DIO,

IN PIAZZA SAN PIETRO

- Servizio di Alessandro De Carolis -

 

 

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Terza domenica di Quaresima, quarto giorno di guerra. La solennità della Messa di questa mattina in Piazza San Pietro, durante la quale Giovanni Paolo II ha elevato agli onori degli altari cinque nuovi Beati, ha fatto da luminoso contrasto con la tragedia che sta consumandosi in queste ore Iraq. Il Papa non ha rinunciato all’occasione di spendere nuove parole in favore della pace e di solidarietà per chi, del conflitto in corso, sta conoscendone gli orrori da inerme. Questa la preghiera che il Pontefice ha levato, con forza, al termine dell’Angelus:     

 

“Ci rivolgiamo ora a Maria Santissima, che i nuovi Beati hanno amato e venerato con speciale devozione. Da Lei imploriamo, soprattutto in questo momento, il dono della pace. A Lei affidiamo, in particolare, le vittime di queste ore di guerra ed i familiari che sono nella sofferenza. Ad essi mi sento spiritualmente vicino con l’affetto e con la preghiera”.

 

In precedenza, durante l’omelia della Messa - davanti a decine di migliaia di pellegrini di varia nazionalità raccolti nel colonnato berniniano sotto uno splendido sole - Giovanni Paolo II ha messo in risalto i connotati di santità mostrati in vita dai cinque beati, vissuti a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Persone capaci di essere apostoli dei più poveri, sia in patria che fuori di essa, di comportarsi da servi generosi nei riguardi di chi contava poco o nulla nella società del loro tempo. Capaci di lanciare la propria vita nell’avventura del Vangelo, scardinando convenzioni sociali e mentalità corrente con la forza del loro amore per Cristo.

 

(musica)

 

Intrecciando citazioni bibliche e tratti biografici, il Pontefice ha ricordato così Pierre Bonhomme, sacerdote francese che fondò nel 1832 la Congregazione delle Suore di Nostra Signora del Calvario per poter sottrarre dallo squallore di una vita di abbandono anziani e bambini poveri, ma soprattutto sordomuti e handicappati gravi. Ma anche suor Dolores Rodríguez Sopeña, spagnola, votatasi sin da giovane al sostegno delle detenute e delle categorie sociali più deboli, che istruisce grazie ad un’estrema varietà di opere da lei fondate: l’Istituto catechista che porta il suo nome, ma anche l’Opera sociale e culturale e il Movimento dei laici.

 

(musica)

 

Dalla Svizzera, sua terra natale, e dalla vita contemplativa alle terre degli indios dell’Ecuador e della Colombia. E’ la straordinaria parabola di un’apostola dalle doti umane e intellettuali non comuni: María Caridad Brader - Madre Carità, secondo il suo nome da religiosa - riesce a condensare in sé azione e vita spirituale, che sublima nella fondazione delle Suore francescane di Maria Immacolata. Un’altra fondatrice, Juana María Condesa Lluch, si lascia permeare dall’amore di Dio pur in un ambiente sociale tutt’altro che favorevole e si dà – con le consorelle del suo Istituto, la Congregazione delle Ancelle di Maria Immacolata – al riscatto umano e spirituale delle operaie. Lo fa lottando contro i risvolti negativi della rivoluzione industriale, che considera le donne nelle fabbriche né più né meno che arnesi di lavoro. Infine Lászlo Batthyány Strattmann, ungherese benestante che sceglie la professione medica per curare gratuitamente i poveri, in questo appoggiato da sua moglie e dalla sua numerosissima prole, da lui stesso formata solidamente al cristianesimo.

 

Cinque figure, cinque modelli che hanno “vissuto in modo singolare”, ha ricordato il Papa, il mistero della redenzione:

 

“La santità dei nuovi Beati ci stimola a tendere anche noi alla perfezione evangelica, mettendo in pratica tutte le parole di Gesù. Si tratta certamente di un itinerario ascetico impegnativo, ma possibile per tutti”.

 

Infine, come anticipato, la preghiera dell’Angelus: con il saluto di Giovanni Paolo II ai fedeli giunti a Roma per le beatificazioni e alle autorità civili presenti in Piazza San Pietro, e con il vibrante appello per la pace e l’affettuosa vicinanza alle “vittime di queste ore di guerra” e ai familiari “che sono nella sofferenza”.

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DA DOMANI, IN VATICANO,

ASSEMBLEA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI.

CON NOI L’ARCIVESCOVO JOHN FOLEY, PRESIDENTE DEL DICASTERO

- A cura di Giovanni Peduto -

 

 

La difesa della fede nei mass media e la loro evangelizzazione. Sono i due cardini attorno ai quali ruoterà, da domani in Vaticano, l’annuale Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali. L’incontro vede coinvolti cardinali, arcivescovi, vescovi ed esperti delle comunicazioni sociali per l’esame di tematiche che vengono fissate anno per anno. Giovanni Peduto ha chiesto al presidente del dicastero, l’arcivescovo John Foley, di illustrarle:

 

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Il tema dell’incontro di quest’anno è la difesa della fede nei media e l’evangelizzazione dei media. Un altro tema sarà quello della pace, che è il tema della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Una pace autentica, alla luce della Pacem in terris, perché purtroppo durante la plenaria ci troveremo nella realtà di una guerra in corso nel Medio Oriente. Per la difesa della fede nei media avremo rapporti dagli Stati Uniti e da altri Paesi, riguardanti gli scandali avvenuti in quei Paesi e le reazioni della Chiesa. E avremo l’opportunità di parlare della diffusione della fede tramite i mezzi di comunicazione, specialmente attraverso le nuove televisioni cattoliche in Francia, in America Latina, in Spagna, in Italia, in Polonia, e anche attraverso Internet. Quindi, si parlerà di come la Chiesa utilizza o dovrebbe utilizzare questo nuovo mezzo di comunicazione sociale. Sarà una delle riunioni con il più alto numero di presenze - dieci cardinali, undici vescovi e venti consultori: più di qualsiasi altro anno, nell’arco dei 20 anni durante quali si sono tenute queste riunioni. Penso che ciò sottolinei l’importanza che i membri e i consultori assegnano a questa opportunità di avere una strategia per la comunicazione nella Chiesa, e di ricevere dal Santo Padre stesso indicazioni riguardanti i mezzi di comunicazione nel servizio della Chiesa.

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OGGI IN PRIMO PIANO

23 marzo 2003

 

 

BASSORA SOTTO IL CONTROLLO ANGLOAMERICANO, MA L’AVANZATA VERSO BAGHDAD E’ RALLENTATA DALLA MAGGIORE RESISTENZA IRACHENA.

LA SCORSA NOTTE, PESANTI BOMBARDAMENTI SU BAGHDAD

- Servizio di Paolo Ondarza -

 

 

Dopo una notte di pesanti bombardamenti, le sirene continuano a suonare a Baghdad e testimoni segnalano nuove esplosioni. Il ministro dell’Informazione iracheno Mohammad Said al Sahaf ha fatto sapere che ci sarebbero sette milioni di militanti iracheni armati del partito Baas dispiegati su tutto il territorio. Circa ottanta morti e 366 feriti secondo Said, tutti civili, nei combattimenti di Bassora, città che a detta del Pentagono è già sotto il controllo anglo-americano. Secondo fonti militari irachene, le truppe di Saddam avrebbero già abbattuto 5 aerei e elicotteri dei nemici e catturato – notizia riferita dalla rete televisiva del Qatar Al Jazeera – due piloti alleati. Sul punto, il capo di Stato maggiore americano, Richard Myers.

 

Stamani, intanto, il vicepresidente iracheno Taha Yassin Ramadan è comparso sugli schermi di Al Jazeera, ammonendo tutte le città irachene alla resistenza. Secondo la televisione irachena, inoltre, Saddam Hussein avrebbe presieduto in queste ore un vertice con i massimi responsabili politici e militari. Sulle reazioni statunitensi alle ultime 24 ore di conflitto, ascoltiamo da New York Paolo Mastrolilli.

 

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“Ora che i conflitto è cominciato, l’unica maniera per limitare la sua durata è usare forza decisiva. Non sarà una campagna di mezze misure”. Questo l’avvertimento lanciato ieri dal presidente Bush, mentre i bombardamenti continuano su tutto l’Iraq e l’offensiva via terra fa progressi. Il capo della Casa Bianca ha detto che le forze americane e inglesi faranno il possibile per risparmiare vite innocenti ma ha aggiunto che la guerra potrebbe essere più lunga e difficile di quanto alcuni prevedono. L’offensiva aerea prosegue quasi a ciclo continuo colpendo Baghdad di giorno e di notte, nonostante le cortine fumogene provocate dagli iracheni, perché le difese ormai non preoccupano più i piloti. Nella capitale, 250 civili sarebbero rimasti feriti e ieri sera si era diffusa la voce di un’esplosione in un quartiere residenziale. I bombardamenti si sono estesi a tutto il Paese: oltre mille incursioni aeree e 500 missili lanciati in 24 ore per spingere la leadership alla resa e favorire l’avanzata della fanteria. La città meridionale di Bassora è assediata. Altri quattro marines però sarebbero stati uccisi da razzi, mentre sette soldati sono morti nella caduta di un elicottero, ieri notte. Il campo dei paracadutisti americani in Kuwait, inoltre, è stato assalito e 30 soldati sono rimasti feriti: un militare Usa è stato arrestato per questo atto. E ancora non ci sono notizie sicure sulla sorte di Saddam, che è apparso ieri in tv. Secondo il Pentagono, la leadership è nel caos e circa 2 mila soldati si sono arresi. Al momento, però, non sono state trovate tracce di armi di distruzione di massa.

 

Da New York, per la Radio Vaticana, Paolo Mastrolilli.

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Non ci sono attualmente flussi di profughi in fuga dall’Iraq, ma l’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sta già prendendo delle misure per affrontare un eventuale esodo. A riguardo, ascoltiamo la portavoce italiana Laura Boldrini. L’intervista è di Salvatore Sabatino:

 

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R. – Stiamo lavorando ormai da mesi per questa situazione: fino all’ultimo abbiamo sperato che si risolvesse diversamente che con la guerra. Abbiamo aiuti di prima necessità nella regione, e in tutti i Paesi confinanti, per circa 300 mila persone. In più, stiamo allestendo i campi di accoglienza. Questo in collaborazione con le autorità di ogni Paese. Abbiamo quindi allestito campi in Giordania, in Siria e in Iran. Al nord, al confine con la Turchia, non abbiamo ancora preparato i campi, ma sappiamo che il governo ha in programma di farlo direttamente. Se la guerra durerà poco, credo che non vedremo rifugiati, ma l’andamento del conflitto sembra indicare che non sarà tanto breve. Di conseguenza, se si dovesse arrivare alla resa dei conti, ad una minaccia diretta della popolazione, allora sì che vi sarebbe un flusso consistente di sfollati. Per adesso, la popolazione non è l’obiettivo di questa guerra, quindi in questo momento la gente sta solo riparata e nascosta. I flussi normalmente ci sono quando la gente diventa bersaglio o quando la gente è spinta ad andare via come abbiamo visto in Kosovo: ad esempio, quando la gente viene cacciata dal regime perché è in corso una pulizia etnica. E’ una fase questa, lo ripeto, non si è ancora concretizzata. Ci auguriamo che non arrivi proprio, ovviamente, ma noi dobbiamo essere comunque pronti al peggio.

 

D. - Si è fatto un gran parlare delle frontiere con la Turchia, che restano sigillate per i profughi. Come funziona il diritto internazionale, in questo caso?

 

R. - I diritti dei rifugiati si basano su un principio fondamentale, cioè il non respingimento alla frontiera. Quindi, la ragione per cui esiste questa agenzia dell’Onu è proprio per tutelare il rispetto di questo principio fondamentale. Noi dovremmo essere un po’ la “sentinella” di questa Convenzione di Ginevra. Detto questo, gli Stati adottano sempre politiche molto fluide sulle frontiere, in quanto nessuno mai pubblicamente annuncia o dichiara di tenerle aperte, perché questo produrrebbe un indesiderato “effetto-calamita”: attirare numeri elevati di profughi è sempre molto problematico, quindi il linguaggio utilizzato in questi frangenti si sviluppa sempre su due livelli: quello pubblico, che è molto cauto, e poi quello pragmatico. Il fatto che questi Paesi, tutti quanti, stiano preparando campi sul proprio territorio dimostra che comunque c’è l’intenzione di ottemperare ai propri obblighi internazionali.

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Si susseguono intanto numerose le manifestazioni per la pace in tutto il mondo, ma secondo i sondaggi il 70 per cento degli americani approva la gestione del conflitto da parte di Bush. Dissenso, oltre che da parte di numerose centinaia di migliaia di dimostranti nelle varie città del globo, è stato espresso anche da alcune star di Hollywood che non si recheranno all’appuntamento annuale con la notte degli  Oscar che si svolgerà regolarmente alle due, ora italiana, a Los Angeles.

 

Nei giorni scorsi, Amnesty International ha lanciato un appello a Bush, Blair, Aznar e Saddam Hussein per il rispetto dei diritti umani. Si legge sul sito web dell’organizzazione: “I diritti umani sono la prima vittima del conflitto in Iraq”. A riguardo, sentiamo il presidente di Amnesty Italia, Marco Bertotto, al microfono di Salvatore Sabatino:

 

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R. - Queste sono ore in cui è molto difficile avere notizie diverse da quelle che sono disponibili, attraverso i media internazionali, per la maggior parte delle persone. Noi non abbiamo dal 1983 personale nostro, personale di ricerche in Iraq, in quanto non ci è consentito l’accesso al Paese. Abbiamo oggi delle delegazioni di ricercatori nei Paesi confinanti ma, ovviamente, quello che più importa dal punto di vista del rispetto dei diritti umani - ovvero il modo in cui vengono condotte le ostilità, effettuati i bombardamenti e detenuti e trattati i prigionieri di guerra - è al di fuori della nostra portata conoscerlo e al di fuori della  nostra portata analizzare gli effetti sulla popolazione.

 

D. - Gli eserciti come si stanno comportando? Rispetto alle altre guerre, c’è maggior rispetto della persona umana?

 

R. - E’ molto difficile valutarlo. L’esperienza degli altri conflitti ci insegna che determinati crimini non vengono evidentemente denunciati nel momento in cui sono commessi, e determinati abusi nell’uso della forza non sono disponibili immediatamente all’opinione pubblica ma vengono poi raccontati successivamente, vengono poi rivelati da testimoni, sono poi oggetto di racconto da parte delle vittime. Al momento, dunque, noi sappiamo che l’utilizzo di armamenti con sistemi di puntamento che dovrebbero garantire maggiore precisione è stato assicurato e costituisce una realtà. Non sappiamo esattamente però quello che sta avvenendo e non siamo quindi così tranquilli, in quanto realmente c’è il rischio che vengano commesse violazioni dei diritti umani: ci sono probabilità che vi siano attacchi anche contro la popolazione civile, i cosiddetti “effetti collaterali” che comunque in una conferenza stampa di ieri sono stati rivelati come una eventualità, una possibilità.

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Il successo politico dell’operazione angloamericana, secondo esperti, sarà determinato anche dal ruolo dell’opposizione irachena e soprattutto dei curdi. Se nel Kurdistan dovesse stabilirsi una presenza militare turca le conseguenze potrebbero essere disastrose. Ma cosa potrebbe significare per i curdo-iracheni l’ingresso dei soldati di Ankara nella loro regione? Francesca Sabatinelli ha sentito Jassim Taofic Mustafa, curdo iracheno, esule in Italia, specialista in diritti umani e relazioni internazionali all’Università di Pisa:

 

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R. - Le conseguenze di questa guerra sono un’incognita, per noi curdi iracheni. I governanti turchi dicono: “Andremo lì per impedire la creazione di uno Stato curdo indipendente”. L’obiettivo dei curdi non è quello di creare uno Stato curdo: l’obiettivo è quello di creare uno Stato moderno, nuovo, federale tra curdi arabi e tutte le altre componenti. In Turchia, ci sono oltre 15 milioni di curdi. A tutt’oggi c’è una repressione feroce in atto contro di noi da parte dello Stato turco, con la Turchia che ci nega l’identità. Inoltre non possiamo negare l’interesse per il petrolio. Buona parte dei giacimenti iracheni si trova nella parte curda ...

 

D. - Jassim, ma i curdi iracheni sono pronti, secondo lei, ad adottare anche una resistenza armata?

 

R. - Le forze curde dicono di essere disposte a difendersi anche con le armi. Sono impegnate a fare tutto il possibile per impedire che ci sia un esodo verso la Turchia.

 

D. - I vostri familiari stanno fuggendo verso le campagne. Che cosa temono?

 

R. - Soprattutto hanno paura dell’uso di armi chimiche, perché noi abbiamo già provato la guerra: più di 200 mila morti curdi dal 1987 al 1991. I curdi hanno molta paura. Dicono: “Forse Saddam Hussein ha le armi chimiche” e ovviamente non hanno né i medicinali né le maschere antigas, ma sono andati nei villaggi a cercare rifugio.

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Sull’identità culturale del popolo curdo, di ceppo indo-europeo all’interno del mondo arabo, e sul riconoscimento politico del Kurdistan territorio attualmente diviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, ascoltiamo Hevi Dilara, responsabile dell’ufficio di rappresentanza diplomatica “Kurdistan in Italia”, contattato da A.V.:

 

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R. - La cultura curda, l’antica cultura della Mesopotamia, è all’origine della religione zoroastriana. Dopo la prima guerra mondiale, nel 1923, con il Trattato di Losanna, il Kurdistan fu diviso in quattro. Da allora, il popolo curdo ha subito grandi repressioni  finalizzate all’assimilazione araba, turca. Per questo, l’antica cultura curda ha corso il rischio di perdersi. Contro questo pericolo, la donna curda ha giocato un ruolo molto importante. Nonostante nelle scuole, per la strada, negli uffici pubblici la lingua curda fosse vietata, nell’ambito familiare la donna ha protetto la cultura, la lingua e la tradizione curde. L’identità del popolo curdo - la sua identità culturale, linguistica, il suo diritto di esistere - ancora non sono riconosciuti dalle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite. Vogliamo una federazione democratica, politica e pacifica per tutti i popoli che vivono nel Medio Oriente. Chiediamo questo perché ciò porterà con sé veramente la pace ed il dialogo tra tutti i popoli che vivono in Medio Oriente.

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E proprio i curdi iracheni hanno accusato un gruppo legato alla rete terroristica di al Qaida per l'attentato con un'autobomba nel quale e' rimasto ucciso un  giornalista australiano. Questa mattina, poi, è giunta notizia di un secondo giornalista di nazionalità russa rimasto vittima dei bombardamenti di Bassora. Due episodi drammatici che pongono ancora una volta in evidenza i rischi corsi dai cronisti inviati nelle zone di guerra. Considerazione ancor più viva se si pensa alla “guerra in diretta” che da qualsiasi parte del mondo è possibile seguire grazie al dislocamento delle telecamere in prossimità delle “zone calde”. Sulle condizioni dei reporter in Iraq, Debora Donnini ha raccolto l’opinione di un inviato di Radio 24, Fausto Biloslavo, mentre si trovava a soli 30 km da Bassora:

 

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R. - E’ una situazione molto pericolosa. I giornalisti ovviamente si espongono in primissima linea. Gli incidenti accaduti possono dipendere sia dal cosiddetto “fuoco amico”, dalle truppe americane, che da parte irachena. Bisogna stare molto, molto attenti. Adesso, per esempio, siamo accanto ad un reparto inglese della polizia militare, lungo la strada che porta a Bassora, e bivaccheremo qua, dove sentiamo continuamente esplosioni, neanche tanto lontane. Al di là della strada, poi, ci sono 40 prigionieri iracheni che evidentemente non sono stati ancora trasferiti... La situazione non è semplice.

 

D. - Qual è la tua impressione su come sta andando la guerra?

 

R. - Sono appena entrato in Iraq, da poche ore, e quindi è difficile dare un’indicazione precisa. Quello che posso dire è che nella prima cittadina in cui sono passato con un convoglio americano a ridosso del confine, sono rimasto colpito dalle frotte di bambini che c’erano agli angoli della strada: malmessi, laceri, alcuni scalzi, tutti sporchi e chiedevano da mangiare e da bere. Non ho visto molti adulti, quei pochi che c’erano non erano certo sorridenti. L’accoglienza non è cordiale, ma neanche particolarmente ostile.

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E oggi si è svolto a Roma, nella Basilica di San Lorenzo in Lucina, un incontro di riflessione dal titolo "Giornalisti, un minuto di parole al servizio della pace", promosso dall'Ucsi, Unione Cattolica Stampa Italiana. Ad introdurre i lavori la Santa Messa celebrata dal vescovo Giuseppe Betori, segretario generale della Cei. Queste le parole della sua omelia: “La pace vera è quella che solo Dio può donare, oltre le facili scorciatoie delle guerre che si presumono chirurgiche ed un pacifismo incapace di rimuovere le cause dell’ingiustizia”. Nel corso della mattinata, si sono poi susseguiti gli interventi di giornalisti italiani e stranieri.

 

 

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CHIESA E SOCIETA’

23 marzo 2003

 

DA DOMANI A ROMA, IL CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE DELLA CEI,

CON LA PROLUSIONE DEL CARDINALE CAMILLO RUINI.

I LAVORI SI CONCLUDERANNO IL PROSSIMO 27 MARZO

 

ROMA. = Il Consiglio episcopale permanente della Conferenza episcopale italiana si riunirà a Roma da domani fino al 27 marzo. I lavori si apriranno con la prolusione del presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini. Nei giorni successivi, i vescovi approveranno lo schema di convenzione per il servizio pastorale in Italia dei presbiteri diocesani provenienti, per motivi di studio, da Paesi stranieri e rifletteranno sull’impegno pastorale della Chiesa nei confronti dell’Università. Sempre a Roma, presso il Centro Villa Aurelia, si svolgerà dal 4 al 5 aprile il quinto Forum del progetto culturale sul tema “Di generazione in generazione. La difficile costruzione del futuro”. Nell’incontro verrà affrontato il problema della trasmissione della cultura e della fede attraverso le generazioni, come chiave della presenza dei cristiani nella società. (A.L.)

 

 

IL PARLAMENTO TURCO VOTA LA FIDUCIA AL GOVERNO DI ERDOGAN.

STASERA, IL DISCORSO DEL PREMIER ALLA NAZIONE

 

ANKARA. = La crisi irachena non ha provocato la caduta dell’esecutivo di Ankara. Il governo turco, presieduto dal leader del partito maggioritario Giustizia e sviluppo (Akp), Tayyip  Erdogan, ha ottenuto oggi il voto di fiducia del Parlamento. Dei 512 deputati presenti, su 550 totali 350 hanno votato a favore e 162 contro. Il premier turco terrà questa sera un discorso alla nazione. Il ministro degli Esteri, Abdullah Gul, ha dichiarato che in seguito alle posizioni tenute da Ankara nella crisi irachena “la Turchia non è mai stata così vicina all'Europa”. In un'intervista al quotidiano Hurriyet, Gul ha affermato che i leader europei, da lui recentemente incontrati a Bruxelles, gli hanno detto che “la Turchia ha dimostrato di essere un Paese democratico”. Le decisioni del Parlamento di negare l’accesso alle truppe americane sulla via dell’Iraq confermano la concordanza della linea tura con la posizione dell’Unione europea. “Poiché la Turchia è un Paese candidato all'adesione all'Unione europea -  ha affermato il ministro - i confini dell'Europa si estendono ora fino all'Iraq”. Baghdad minaccia la Turchia di “serie rappresaglie” per l'appoggio offerto agli Stati Uniti nella guerra contro l'Iraq. A lanciare l'avvertimento è stato il ministro degli Esteri iracheno, Naji Sabri, il quale ha assicurato che i suoi connazionali sono pronti a combattere in difesa del Paese. (A.L.)

 

 

 

DOPPIA CONSULTAZIONE ELETTORALE PER LA SLOVENIA:

SI VOTA PER I REFERENDUM DI ADESIONE

 DEL PAESE ALL’UNIONE EUROPEA ED ALLA NATO

 

LUBIANA.= Si sono aperti questa mattina, in Slovenia, i seggi per i referendum di adesione del Paese all’Unione Europea ed alla Nato. Nella Repubblica della penisola balcanica, indipendente dal 1991, gli oltre un milione e mezzo di elettori potranno accedere alle urne fino alle 19 di questa sera. Mentre sembra scontato il parere positivo per l'ingresso nell'Unione Europea, è invece incerto l'esito del referendum sulla Nato, sul quale pesa negativamente l’inizio della guerra in Iraq. In base alla legge, il risultato del voto non è vincolante per il governo di Lubiana, ma la coalizione al potere, guidata dal partito liberal-democratico, ha annunciato che si impegnerà a rispettare la volontà popolare. La Slovenia è stata invitata ad aderire all'Alleanza atlantica nel corso del vertice svoltosi nello scorso novembre a Praga, e nel mese successivo l’esecutivo di Lubiana ha concluso con successo i negoziati di adesione all'Ue. Una grande ondata di critiche ha avvolto recentemente il ministro degli Esteri Dimitri Rupel per aver concesso, sottoscrivendo la dichiarazione di Vilnius, il pieno appoggio del Paese agli Stati Uniti. In seguito a questa ferrea opposizione espressa dall’opinione pubblica, la Slovenia ha negato agli Stati Uniti l’uso dello spazio aereo ed il passaggio di terra per le truppe impegnate nell’offensiva militare contro l’Iraq. (A.L.)

 

 

APERTE DA STAMANI IN CECENIA LE URNE

 PER IL REFERENDUM COSTITUZIONALE INDETTO DA MOSCA

 

GROZNY.= In Cecenia, circa 560 mila elettori sono attesi oggi alle urne per il referendum costituzionale indetto da Mosca. I cittadini ceceni sono chiamati ad approvare una nuova Costituzione e la legge per l’elezione del presidente della Repubblica e del Parlamento. Il referendum, voluto dal presidente russo Vladimir Putin per aprire un processo di normalizzazione nel Paese, sarà valido se i “si” saranno più del 50 per cento dei votanti effettivi. Il governo indipendentista di Aslan Maskadov ha invitato a boicottare la consultazione definendola “illegittima” perché celebrata “sotto la minaccia delle armi russe”. Il testo della Costituzione è stato inviato a diverse istituzioni internazionali, quali il Consiglio d’Europa e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), per una loro approvazione del rispetto dei criteri democratici europei in materia di procedure elettorali. Secondo gli osservatori dell’Osce, “il referendum è il primo passo per la ricerca di una soluzione politica del conflitto” del Caucaso. Per assicurare la massima partecipazione al voto da parte della popolazione, il governo di Mosca ha lavorato molto sull’aspetto linguistico del testo, divulgato in una doppia versione russa e cecena. (A.L.)

 

 

LE CASSE ISRAELIANE SONO IN ROSSO: IL GOVERNO DI TEL AVIV

HA CHIESTO 10 MILIARDI DI DOLLARI AGLI STATI UNITI

 

TEL AVIV. = Il governo degli Stati Uniti potrebbe stanziare 10 miliardi di dollari per finanziare l’enorme debito pubblico di Israele. Il piano di sostegno dovrebbe essere inviato al più presto al Congresso per l’approvazione. La voragine finanziaria di Tel Aviv è stata prodotta dalle enormi spese militari sostenute per il conflitto con i palestinesi e dalla ricaduta economica provocata dai quasi tre anni di crisi. Un miliardo di dollari sarà impiegato direttamente per l’assistenza militare, mentre i restanti 9 miliardi potrebbero consistere in prestiti e garanzie bancarie. Mentre il ministro delle finanze di Tel Aviv, Benjamin Nethanyahu, sostiene che il piano è gia pronto, il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Richard Boucher, ha detto che al momento si tratta solo di una richiesta di Israele. “La situazione di oggi è uguale a quella di ieri. Conosciamo le loro necessità e stiamo considerando l’eventualità di intervenire”, ha detto il portavoce. Nei trenta mesi di Intifada, Israele ha accumulato il debito pubblico più grande della sua storia. Il sostegno degli Stati Uniti dovrebbe escludere qualunque aiuto indirizzato verso gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. (A.L.)

 

 

IL REGISTA GABRIELE SALVATORES, PREMIO OSCAR PER IL FILM “MEDITERRANEO”, HA PRESENTATO AL PUBBLICO IL SUO ULTIMO LAVORO “IO NON HO PAURA”

- A cura di Enzo Natta -

 

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ROMA. = E’ uscito nelle sale cinematografiche "Io non ho paura", il film del premio oscar Gabriele Salvatores tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. In piena estate, nelle vaste e assolate distese della campagna meridionale, in una zona isolata, un bambino scopre che in una profonda buca, scavata nel terreno, è tenuto prigioniero un suo coetaneo: nudo e incatenato come una bestia. Il titolo “io non ho paura” esprime lo stato d’animo di un bambino di 10 anni di fronte alla scoperta di un rapimento nel quale sono coinvolti i suoi genitori. Una ribellione della coscienza, un moto dell’animo, che si manifesta attraverso la fierezza, la dignità e il senso di solidarietà. La narrazione, l’angolazione dalla quale è raccontata la vicenda, è quella inquadrata dal punto di vista dei bambini, dei loro sguardi innocenti così come è innocente la natura in cui loro si muovono in piena libertà, una natura non ancora contagiata da manipolazioni e infettata da profondi stravolgimenti, come invece è capitato agli uomini, agli adulti del luogo. Per rendere più marcato lo spessore di questo contrasto Gabriele Salvatores ha usato non un linguaggio realista e critico, ma un linguaggio favolistico, mitico, ancestrale, immerso in un meridione agreste, silenzioso, fermo nel tempo. Bellissimo il finale: le mani tese dei due bambini richiamano l’affresco michelangiolesco della Creazione, nella Cappella Sistina, in un’immagine rovesciata dove la salvezza e la vita sono restituite attraverso il sacrificio.

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