RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 82 - Testo della
Trasmissione domenica 23 marzo 2003
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI
IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Il governo turco di Erdogan
ottiene la fiducia del Parlamento
La Slovenia alle urne per il
referendum sull’adesione all’Unione Europea e alla Nato
Anche la Cecenia al voto sulla nuova
Costituzione voluta da Mosca
Presentato dal regista italiano
Gabriele Salvatores il suo ultimo film “Io non ho paura”.
23 marzo 2003
ALL’ANGELUS, IL PAPA CHIEDE A GRAN VOCE
“IL DONO DELLA PACE”
E
PREGA PER LE VITTIME DI GUERRA E I LORO FAMILIARI,
AL
TERMINE DELLA CERIMONIA DI BEATIFICAZIONE DI CINQUE SERVI DI DIO,
IN
PIAZZA SAN PIETRO
-
Servizio di Alessandro De Carolis -
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Terza domenica di Quaresima, quarto giorno di guerra. La
solennità della Messa di questa mattina in Piazza San Pietro, durante la quale
Giovanni Paolo II ha elevato agli onori degli altari cinque nuovi Beati, ha
fatto da luminoso contrasto con la tragedia che sta consumandosi in queste ore
Iraq. Il Papa non ha rinunciato all’occasione di spendere nuove parole in
favore della pace e di solidarietà per chi, del conflitto in corso, sta
conoscendone gli orrori da inerme. Questa la preghiera che il Pontefice ha
levato, con forza, al termine dell’Angelus:
“Ci rivolgiamo ora a Maria Santissima, che i nuovi
Beati hanno amato e venerato con speciale devozione. Da Lei imploriamo,
soprattutto in questo momento, il dono della pace. A Lei affidiamo, in
particolare, le vittime di queste ore di guerra ed i familiari che sono nella
sofferenza. Ad essi mi sento spiritualmente vicino con l’affetto e con la
preghiera”.
In precedenza, durante l’omelia della Messa - davanti a
decine di migliaia di pellegrini di varia nazionalità raccolti nel colonnato
berniniano sotto uno splendido sole - Giovanni Paolo II ha messo in risalto i
connotati di santità mostrati in vita dai cinque beati, vissuti a cavallo tra
l’Otto e il Novecento. Persone capaci di essere apostoli dei più poveri, sia in
patria che fuori di essa, di comportarsi da servi generosi nei riguardi di chi
contava poco o nulla nella società del loro tempo. Capaci di lanciare la
propria vita nell’avventura del Vangelo, scardinando convenzioni sociali e mentalità
corrente con la forza del loro amore per Cristo.
(musica)
Intrecciando citazioni bibliche e tratti biografici, il
Pontefice ha ricordato così Pierre Bonhomme, sacerdote francese che fondò nel
1832 la Congregazione delle Suore di Nostra Signora del Calvario per poter
sottrarre dallo squallore di una vita di abbandono anziani e bambini poveri, ma
soprattutto sordomuti e handicappati gravi. Ma anche suor Dolores Rodríguez
Sopeña, spagnola, votatasi sin da giovane al sostegno delle detenute e delle
categorie sociali più deboli, che istruisce grazie ad un’estrema varietà di
opere da lei fondate: l’Istituto catechista che porta il suo nome, ma anche
l’Opera sociale e culturale e il Movimento dei laici.
(musica)
Dalla Svizzera, sua terra natale, e dalla vita
contemplativa alle terre degli indios dell’Ecuador e della Colombia. E’ la
straordinaria parabola di un’apostola dalle doti umane e intellettuali non
comuni: María Caridad Brader - Madre Carità, secondo il suo nome da religiosa -
riesce a condensare in sé azione e vita spirituale, che sublima nella
fondazione delle Suore francescane di Maria Immacolata. Un’altra fondatrice,
Juana María Condesa Lluch, si lascia permeare dall’amore di Dio pur in un
ambiente sociale tutt’altro che favorevole e si dà – con le consorelle del suo
Istituto, la Congregazione delle Ancelle di Maria Immacolata – al riscatto
umano e spirituale delle operaie. Lo fa lottando contro i risvolti negativi
della rivoluzione industriale, che considera le donne nelle fabbriche né più né
meno che arnesi di lavoro. Infine Lászlo Batthyány Strattmann, ungherese benestante
che sceglie la professione medica per curare gratuitamente i poveri, in questo
appoggiato da sua moglie e dalla sua numerosissima prole, da lui stesso formata
solidamente al cristianesimo.
Cinque figure, cinque modelli che hanno “vissuto in modo
singolare”, ha ricordato il Papa, il mistero della redenzione:
“La santità dei nuovi Beati ci stimola a tendere
anche noi alla perfezione evangelica, mettendo in pratica tutte le parole di
Gesù. Si tratta certamente di un itinerario ascetico impegnativo, ma possibile
per tutti”.
Infine,
come anticipato, la preghiera dell’Angelus: con il saluto di Giovanni Paolo II
ai fedeli giunti a Roma per le beatificazioni e alle autorità civili presenti
in Piazza San Pietro, e con il vibrante appello per la pace e l’affettuosa
vicinanza alle “vittime di queste ore di guerra” e ai familiari “che sono nella
sofferenza”.
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ASSEMBLEA
PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI.
CON NOI L’ARCIVESCOVO JOHN FOLEY, PRESIDENTE DEL DICASTERO
- A
cura di Giovanni Peduto -
La difesa della fede nei mass media e la loro
evangelizzazione. Sono i due cardini attorno ai quali ruoterà, da domani in
Vaticano, l’annuale Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle
comunicazioni sociali. L’incontro vede coinvolti cardinali, arcivescovi,
vescovi ed esperti delle comunicazioni sociali per l’esame di tematiche che
vengono fissate anno per anno. Giovanni Peduto ha chiesto al presidente del
dicastero, l’arcivescovo John Foley, di illustrarle:
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Il tema dell’incontro di quest’anno è la difesa della fede
nei media e l’evangelizzazione dei media. Un altro tema sarà quello della pace,
che è il tema della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Una pace
autentica, alla luce della Pacem in terris, perché purtroppo durante la
plenaria ci troveremo nella realtà di una guerra in corso nel Medio Oriente.
Per la difesa della fede nei media avremo rapporti dagli Stati Uniti e da altri
Paesi, riguardanti gli scandali avvenuti in quei Paesi e le reazioni della
Chiesa. E avremo l’opportunità di parlare della diffusione della fede tramite i
mezzi di comunicazione, specialmente attraverso le nuove televisioni cattoliche
in Francia, in America Latina, in Spagna, in Italia, in Polonia, e anche
attraverso Internet. Quindi, si parlerà di come la Chiesa utilizza o dovrebbe
utilizzare questo nuovo mezzo di comunicazione sociale. Sarà una delle riunioni
con il più alto numero di presenze - dieci cardinali, undici vescovi e venti
consultori: più di qualsiasi altro anno, nell’arco dei 20 anni durante quali si
sono tenute queste riunioni. Penso che ciò sottolinei l’importanza che i membri
e i consultori assegnano a questa opportunità di avere una strategia per la
comunicazione nella Chiesa, e di ricevere dal Santo Padre stesso indicazioni
riguardanti i mezzi di comunicazione nel servizio della Chiesa.
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23
marzo 2003
BASSORA
SOTTO IL CONTROLLO ANGLOAMERICANO, MA L’AVANZATA VERSO BAGHDAD E’ RALLENTATA
DALLA MAGGIORE RESISTENZA IRACHENA.
LA
SCORSA NOTTE, PESANTI BOMBARDAMENTI SU BAGHDAD
-
Servizio di Paolo Ondarza -
Dopo
una notte di pesanti bombardamenti, le sirene continuano a suonare a Baghdad e
testimoni segnalano nuove esplosioni. Il ministro dell’Informazione iracheno
Mohammad Said al Sahaf ha fatto sapere che ci sarebbero sette milioni di
militanti iracheni armati del partito Baas dispiegati su tutto il territorio.
Circa ottanta morti e 366 feriti secondo Said, tutti civili, nei combattimenti
di Bassora, città che a detta del Pentagono è già sotto il controllo
anglo-americano. Secondo fonti militari irachene, le truppe di Saddam avrebbero
già abbattuto 5 aerei e elicotteri dei nemici e catturato – notizia riferita
dalla rete televisiva del Qatar Al Jazeera – due piloti alleati. Sul
punto, il capo di Stato maggiore americano, Richard Myers.
Stamani,
intanto, il vicepresidente iracheno Taha Yassin Ramadan è comparso sugli
schermi di Al Jazeera, ammonendo tutte le città irachene alla resistenza.
Secondo la televisione irachena, inoltre, Saddam Hussein avrebbe presieduto in
queste ore un vertice con i massimi responsabili politici e militari. Sulle
reazioni statunitensi alle ultime 24 ore di conflitto, ascoltiamo da New York
Paolo Mastrolilli.
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“Ora che i conflitto è cominciato, l’unica maniera per
limitare la sua durata è usare forza decisiva. Non sarà una campagna di mezze
misure”. Questo l’avvertimento lanciato ieri dal presidente Bush, mentre i
bombardamenti continuano su tutto l’Iraq e l’offensiva via terra fa progressi.
Il capo della Casa Bianca ha detto che le forze americane e inglesi faranno il
possibile per risparmiare vite innocenti ma ha aggiunto che la guerra potrebbe
essere più lunga e difficile di quanto alcuni prevedono. L’offensiva aerea
prosegue quasi a ciclo continuo colpendo Baghdad di giorno e di notte,
nonostante le cortine fumogene provocate dagli iracheni, perché le difese ormai
non preoccupano più i piloti. Nella capitale, 250 civili sarebbero rimasti
feriti e ieri sera si era diffusa la voce di un’esplosione in un quartiere residenziale.
I bombardamenti si sono estesi a tutto il Paese: oltre mille incursioni aeree e
500 missili lanciati in 24 ore per spingere la leadership alla resa e favorire
l’avanzata della fanteria. La città meridionale di Bassora è assediata. Altri
quattro marines però sarebbero stati uccisi da razzi, mentre sette
soldati sono morti nella caduta di un elicottero, ieri notte. Il campo dei
paracadutisti americani in Kuwait, inoltre, è stato assalito e 30 soldati sono
rimasti feriti: un militare Usa è stato arrestato per questo atto. E ancora non
ci sono notizie sicure sulla sorte di Saddam, che è apparso ieri in tv. Secondo
il Pentagono, la leadership è nel caos e circa 2 mila soldati si sono arresi.
Al momento, però, non sono state trovate tracce di armi di distruzione di
massa.
Da New York, per la Radio Vaticana, Paolo Mastrolilli.
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Non ci sono attualmente flussi di profughi in fuga
dall’Iraq, ma l’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite
per i rifugiati, sta già prendendo delle misure per affrontare un eventuale
esodo. A riguardo, ascoltiamo la portavoce italiana Laura Boldrini.
L’intervista è di Salvatore Sabatino:
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R. – Stiamo lavorando ormai da mesi per questa situazione:
fino all’ultimo abbiamo sperato che si risolvesse diversamente che con la
guerra. Abbiamo aiuti di prima necessità nella regione, e in tutti i Paesi
confinanti, per circa 300 mila persone. In più, stiamo allestendo i campi di
accoglienza. Questo in collaborazione con le autorità di ogni Paese. Abbiamo
quindi allestito campi in Giordania, in Siria e in Iran. Al nord, al confine
con la Turchia, non abbiamo ancora preparato i campi, ma sappiamo che il
governo ha in programma di farlo direttamente. Se la guerra durerà poco, credo
che non vedremo rifugiati, ma l’andamento del conflitto sembra indicare che non
sarà tanto breve. Di conseguenza, se si dovesse arrivare alla resa dei conti,
ad una minaccia diretta della popolazione, allora sì che vi sarebbe un flusso
consistente di sfollati. Per adesso, la popolazione non è l’obiettivo di questa
guerra, quindi in questo momento la gente sta solo riparata e nascosta. I
flussi normalmente ci sono quando la gente diventa bersaglio o quando la gente
è spinta ad andare via come abbiamo visto in Kosovo: ad esempio, quando la
gente viene cacciata dal regime perché è in corso una pulizia etnica. E’ una
fase questa, lo ripeto, non si è ancora concretizzata. Ci auguriamo che non
arrivi proprio, ovviamente, ma noi dobbiamo essere comunque pronti al peggio.
D. - Si è fatto un gran parlare delle frontiere con la
Turchia, che restano sigillate per i profughi. Come funziona il diritto
internazionale, in questo caso?
R. - I diritti dei rifugiati si basano su un principio
fondamentale, cioè il non respingimento alla frontiera. Quindi, la ragione per
cui esiste questa agenzia dell’Onu è proprio per tutelare il rispetto di questo
principio fondamentale. Noi dovremmo essere un po’ la “sentinella” di questa
Convenzione di Ginevra. Detto questo, gli Stati adottano sempre politiche molto
fluide sulle frontiere, in quanto nessuno mai pubblicamente annuncia o dichiara
di tenerle aperte, perché questo produrrebbe un indesiderato
“effetto-calamita”: attirare numeri elevati di profughi è sempre molto
problematico, quindi il linguaggio utilizzato in questi frangenti si sviluppa
sempre su due livelli: quello pubblico, che è molto cauto, e poi quello
pragmatico. Il fatto che questi Paesi, tutti quanti, stiano preparando campi
sul proprio territorio dimostra che comunque c’è l’intenzione di ottemperare ai
propri obblighi internazionali.
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Si susseguono intanto numerose le manifestazioni per la
pace in tutto il mondo, ma secondo i sondaggi il 70 per cento degli americani
approva la gestione del conflitto da parte di Bush. Dissenso, oltre che da
parte di numerose centinaia di migliaia di dimostranti nelle varie città del
globo, è stato espresso anche da alcune star di Hollywood che non si recheranno
all’appuntamento annuale con la notte degli
Oscar che si svolgerà regolarmente alle due, ora italiana, a Los Angeles.
Nei giorni scorsi, Amnesty International ha
lanciato un appello a Bush, Blair, Aznar e Saddam Hussein per il rispetto dei
diritti umani. Si legge sul sito web dell’organizzazione: “I diritti umani sono
la prima vittima del conflitto in Iraq”. A riguardo, sentiamo il presidente di
Amnesty Italia, Marco Bertotto, al microfono di Salvatore Sabatino:
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R. - Queste sono ore in cui è molto difficile avere
notizie diverse da quelle che sono disponibili, attraverso i media
internazionali, per la maggior parte delle persone. Noi non abbiamo dal 1983
personale nostro, personale di ricerche in Iraq, in quanto non ci è consentito
l’accesso al Paese. Abbiamo oggi delle delegazioni di ricercatori nei Paesi
confinanti ma, ovviamente, quello che più importa dal punto di vista del
rispetto dei diritti umani - ovvero il modo in cui vengono condotte le
ostilità, effettuati i bombardamenti e detenuti e trattati i prigionieri di
guerra - è al di fuori della nostra portata conoscerlo e al di fuori della nostra portata analizzare gli effetti sulla
popolazione.
D. - Gli eserciti come si stanno comportando? Rispetto alle
altre guerre, c’è maggior rispetto della persona umana?
R. - E’ molto difficile valutarlo. L’esperienza degli
altri conflitti ci insegna che determinati crimini non vengono evidentemente
denunciati nel momento in cui sono commessi, e determinati abusi nell’uso della
forza non sono disponibili immediatamente all’opinione pubblica ma vengono poi
raccontati successivamente, vengono poi rivelati da testimoni, sono poi oggetto
di racconto da parte delle vittime. Al momento, dunque, noi sappiamo che
l’utilizzo di armamenti con sistemi di puntamento che dovrebbero garantire
maggiore precisione è stato assicurato e costituisce una realtà. Non sappiamo
esattamente però quello che sta avvenendo e non siamo quindi così tranquilli,
in quanto realmente c’è il rischio che vengano commesse violazioni dei diritti
umani: ci sono probabilità che vi siano attacchi anche contro la popolazione
civile, i cosiddetti “effetti collaterali” che comunque in una conferenza stampa
di ieri sono stati rivelati come una eventualità, una possibilità.
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Il successo politico dell’operazione angloamericana,
secondo esperti, sarà determinato anche dal ruolo dell’opposizione irachena e
soprattutto dei curdi. Se nel Kurdistan dovesse stabilirsi una presenza
militare turca le conseguenze potrebbero essere disastrose. Ma cosa potrebbe
significare per i curdo-iracheni l’ingresso dei soldati di Ankara nella loro
regione? Francesca Sabatinelli ha sentito Jassim Taofic Mustafa, curdo
iracheno, esule in Italia, specialista in diritti umani e relazioni
internazionali all’Università di Pisa:
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R. - Le
conseguenze di questa guerra sono un’incognita, per noi curdi iracheni. I governanti
turchi dicono: “Andremo lì per impedire la creazione di uno Stato curdo indipendente”.
L’obiettivo dei curdi non è quello di creare uno Stato curdo: l’obiettivo è
quello di creare uno Stato moderno, nuovo, federale tra curdi arabi e tutte le
altre componenti. In Turchia, ci sono oltre 15 milioni di curdi. A tutt’oggi
c’è una repressione feroce in atto contro di noi da parte dello Stato turco,
con la Turchia che ci nega l’identità. Inoltre non possiamo negare l’interesse
per il petrolio. Buona parte dei giacimenti iracheni si trova nella parte curda
...
D. - Jassim, ma i curdi iracheni sono pronti, secondo lei,
ad adottare anche una resistenza armata?
R. - Le forze curde dicono di essere disposte a difendersi
anche con le armi. Sono impegnate a fare tutto il possibile per impedire che ci
sia un esodo verso la Turchia.
D. - I vostri familiari stanno fuggendo verso le campagne.
Che cosa temono?
R. - Soprattutto hanno paura dell’uso di armi chimiche,
perché noi abbiamo già provato la guerra: più di 200 mila morti curdi dal 1987
al 1991. I curdi hanno molta paura. Dicono: “Forse Saddam Hussein ha le armi
chimiche” e ovviamente non hanno né i medicinali né le maschere antigas, ma
sono andati nei villaggi a cercare rifugio.
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Sull’identità
culturale del popolo curdo, di ceppo indo-europeo all’interno del mondo arabo,
e sul riconoscimento politico del Kurdistan territorio attualmente diviso tra
Turchia, Iran, Iraq e Siria, ascoltiamo Hevi Dilara, responsabile dell’ufficio
di rappresentanza diplomatica “Kurdistan in Italia”, contattato da A.V.:
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R. - La cultura curda, l’antica cultura della Mesopotamia,
è all’origine della religione zoroastriana. Dopo la prima guerra mondiale, nel
1923, con il Trattato di Losanna, il Kurdistan fu diviso in quattro. Da allora,
il popolo curdo ha subito grandi repressioni
finalizzate all’assimilazione araba, turca. Per questo, l’antica cultura
curda ha corso il rischio di perdersi. Contro questo pericolo, la donna curda
ha giocato un ruolo molto importante. Nonostante nelle scuole, per la strada,
negli uffici pubblici la lingua curda fosse vietata, nell’ambito familiare la
donna ha protetto la cultura, la lingua e la tradizione curde. L’identità del
popolo curdo - la sua identità culturale, linguistica, il suo diritto di
esistere - ancora non sono riconosciuti dalle organizzazioni internazionali
come le Nazioni Unite. Vogliamo una federazione democratica, politica e
pacifica per tutti i popoli che vivono nel Medio Oriente. Chiediamo questo
perché ciò porterà con sé veramente la pace ed il dialogo tra tutti i popoli
che vivono in Medio Oriente.
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E
proprio i curdi iracheni hanno accusato un gruppo legato alla rete terroristica
di al Qaida per l'attentato con un'autobomba nel quale e' rimasto ucciso
un giornalista australiano. Questa
mattina, poi, è giunta notizia di un secondo giornalista di nazionalità russa
rimasto vittima dei bombardamenti di Bassora. Due episodi drammatici che
pongono ancora una volta in evidenza i rischi corsi dai cronisti inviati nelle
zone di guerra. Considerazione ancor più viva se si pensa alla “guerra in
diretta” che da qualsiasi parte del mondo è possibile seguire grazie al
dislocamento delle telecamere in prossimità delle “zone calde”. Sulle
condizioni dei reporter in Iraq, Debora Donnini ha raccolto l’opinione di un
inviato di Radio 24, Fausto Biloslavo, mentre si trovava a soli 30 km da
Bassora:
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R. - E’ una situazione molto pericolosa. I giornalisti
ovviamente si espongono in primissima linea. Gli incidenti accaduti possono
dipendere sia dal cosiddetto “fuoco amico”, dalle truppe americane, che da
parte irachena. Bisogna stare molto, molto attenti. Adesso, per esempio, siamo
accanto ad un reparto inglese della polizia militare, lungo la strada che porta
a Bassora, e bivaccheremo qua, dove sentiamo continuamente esplosioni, neanche
tanto lontane. Al di là della strada, poi, ci sono 40 prigionieri iracheni che
evidentemente non sono stati ancora trasferiti... La situazione non è semplice.
D. - Qual è la tua impressione su come sta andando la
guerra?
R. - Sono appena entrato in Iraq, da poche ore, e quindi è
difficile dare un’indicazione precisa. Quello che posso dire è che nella prima
cittadina in cui sono passato con un convoglio americano a ridosso del confine,
sono rimasto colpito dalle frotte di bambini che c’erano agli angoli della
strada: malmessi, laceri, alcuni scalzi, tutti sporchi e chiedevano da mangiare
e da bere. Non ho visto molti adulti, quei pochi che c’erano non erano certo sorridenti.
L’accoglienza non è cordiale, ma neanche particolarmente ostile.
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E oggi si è svolto a Roma, nella Basilica di San Lorenzo in
Lucina, un incontro di riflessione dal titolo "Giornalisti, un minuto di
parole al servizio della pace", promosso dall'Ucsi, Unione Cattolica Stampa
Italiana. Ad introdurre i lavori la Santa Messa celebrata dal vescovo Giuseppe
Betori, segretario generale della Cei. Queste le parole della sua omelia: “La
pace vera è quella che solo Dio può donare, oltre le facili scorciatoie delle
guerre che si presumono chirurgiche ed un pacifismo incapace di rimuovere le
cause dell’ingiustizia”. Nel corso della mattinata, si sono poi susseguiti gli
interventi di giornalisti italiani e stranieri.
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23 marzo 2003
DA
DOMANI A ROMA, IL CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE DELLA CEI,
CON LA
PROLUSIONE DEL CARDINALE CAMILLO RUINI.
I
LAVORI SI CONCLUDERANNO IL PROSSIMO 27 MARZO
ROMA. = Il Consiglio episcopale permanente della
Conferenza episcopale italiana si riunirà a Roma da domani fino al 27 marzo. I
lavori si apriranno con la prolusione del presidente della Cei, il cardinale
Camillo Ruini. Nei giorni successivi, i vescovi approveranno lo schema di
convenzione per il servizio pastorale in Italia dei presbiteri diocesani
provenienti, per motivi di studio, da Paesi stranieri e rifletteranno
sull’impegno pastorale della Chiesa nei confronti dell’Università. Sempre a
Roma, presso il Centro Villa Aurelia, si svolgerà dal 4 al 5 aprile il quinto
Forum del progetto culturale sul tema “Di generazione in generazione. La
difficile costruzione del futuro”. Nell’incontro verrà affrontato il problema
della trasmissione della cultura e della fede attraverso le generazioni, come
chiave della presenza dei cristiani nella società. (A.L.)
IL
PARLAMENTO TURCO VOTA LA FIDUCIA AL GOVERNO DI ERDOGAN.
STASERA,
IL DISCORSO DEL PREMIER ALLA NAZIONE
ANKARA. = La crisi irachena non ha provocato la
caduta dell’esecutivo di Ankara. Il governo turco, presieduto dal leader del
partito maggioritario Giustizia e sviluppo (Akp), Tayyip Erdogan, ha ottenuto oggi il voto di fiducia
del Parlamento. Dei 512 deputati presenti, su 550 totali 350 hanno votato a
favore e 162 contro. Il premier turco terrà questa sera un discorso alla
nazione. Il ministro degli Esteri, Abdullah Gul, ha dichiarato che in seguito
alle posizioni tenute da Ankara nella crisi irachena “la Turchia non è mai
stata così vicina all'Europa”. In un'intervista al quotidiano Hurriyet,
Gul ha affermato che i leader europei, da lui recentemente incontrati a
Bruxelles, gli hanno detto che “la Turchia ha dimostrato di essere un Paese
democratico”. Le decisioni del Parlamento di negare l’accesso alle truppe
americane sulla via dell’Iraq confermano la concordanza della linea tura con la
posizione dell’Unione europea. “Poiché la Turchia è un Paese candidato all'adesione
all'Unione europea - ha affermato il
ministro - i confini dell'Europa si estendono ora fino all'Iraq”. Baghdad
minaccia la Turchia di “serie rappresaglie” per l'appoggio offerto agli Stati
Uniti nella guerra contro l'Iraq. A lanciare l'avvertimento è stato il ministro
degli Esteri iracheno, Naji Sabri, il quale ha assicurato che i suoi
connazionali sono pronti a combattere in difesa del Paese. (A.L.)
DOPPIA
CONSULTAZIONE ELETTORALE PER LA SLOVENIA:
SI
VOTA PER I REFERENDUM DI ADESIONE
DEL PAESE ALL’UNIONE EUROPEA ED ALLA NATO
LUBIANA.= Si sono aperti questa mattina, in
Slovenia, i seggi per i referendum di adesione del Paese all’Unione Europea ed
alla Nato. Nella Repubblica della penisola balcanica, indipendente dal 1991,
gli oltre un milione e mezzo di elettori potranno accedere alle urne fino alle
19 di questa sera. Mentre sembra scontato il parere positivo per l'ingresso
nell'Unione Europea, è invece incerto l'esito del referendum sulla Nato, sul
quale pesa negativamente l’inizio della guerra in Iraq. In base alla legge, il
risultato del voto non è vincolante per il governo di Lubiana, ma la coalizione
al potere, guidata dal partito liberal-democratico, ha annunciato che si
impegnerà a rispettare la volontà popolare. La Slovenia è stata invitata ad
aderire all'Alleanza atlantica nel corso del vertice svoltosi nello scorso
novembre a Praga, e nel mese successivo l’esecutivo di Lubiana ha concluso con
successo i negoziati di adesione all'Ue. Una grande ondata di critiche ha
avvolto recentemente il ministro degli Esteri Dimitri Rupel per aver concesso,
sottoscrivendo la dichiarazione di Vilnius, il pieno appoggio del
Paese agli Stati Uniti. In seguito a questa ferrea opposizione espressa
dall’opinione pubblica, la Slovenia ha negato agli Stati Uniti l’uso dello
spazio aereo ed il passaggio di terra per le truppe impegnate nell’offensiva
militare contro l’Iraq. (A.L.)
APERTE
DA STAMANI IN CECENIA LE URNE
PER IL REFERENDUM COSTITUZIONALE INDETTO DA
MOSCA
GROZNY.= In Cecenia, circa 560 mila elettori sono
attesi oggi alle urne per il referendum costituzionale indetto da Mosca. I
cittadini ceceni sono chiamati ad approvare una nuova Costituzione e la legge
per l’elezione del presidente della Repubblica e del Parlamento. Il referendum,
voluto dal presidente russo Vladimir Putin per aprire un processo di
normalizzazione nel Paese, sarà valido se i “si” saranno più del 50 per cento
dei votanti effettivi. Il governo indipendentista di Aslan Maskadov ha invitato
a boicottare la consultazione definendola “illegittima” perché celebrata “sotto
la minaccia delle armi russe”. Il testo della Costituzione è stato inviato a
diverse istituzioni internazionali, quali il Consiglio d’Europa e
l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), per una
loro approvazione del rispetto dei criteri democratici europei in materia di
procedure elettorali. Secondo gli osservatori dell’Osce, “il referendum è il
primo passo per la ricerca di una soluzione politica del conflitto” del
Caucaso. Per assicurare la massima partecipazione al voto da parte della
popolazione, il governo di Mosca ha lavorato molto sull’aspetto linguistico del
testo, divulgato in una doppia versione russa e cecena. (A.L.)
LE
CASSE ISRAELIANE SONO IN ROSSO: IL GOVERNO DI TEL AVIV
HA
CHIESTO 10 MILIARDI DI DOLLARI AGLI STATI UNITI
TEL AVIV. = Il governo degli Stati Uniti potrebbe
stanziare 10 miliardi di dollari per finanziare l’enorme debito pubblico di
Israele. Il piano di sostegno dovrebbe essere inviato al più presto al
Congresso per l’approvazione. La voragine finanziaria di Tel Aviv è stata
prodotta dalle enormi spese militari sostenute per il conflitto con i
palestinesi e dalla ricaduta economica provocata dai quasi tre anni
di crisi. Un miliardo di dollari sarà impiegato direttamente per l’assistenza
militare, mentre i restanti 9 miliardi potrebbero consistere in prestiti e
garanzie bancarie. Mentre il ministro delle finanze di Tel Aviv, Benjamin
Nethanyahu, sostiene che il piano è gia pronto, il portavoce del Dipartimento
di Stato degli Stati Uniti, Richard Boucher, ha detto che al momento si tratta
solo di una richiesta di Israele. “La situazione di oggi è uguale a quella di
ieri. Conosciamo le loro necessità e stiamo considerando l’eventualità di
intervenire”, ha detto il portavoce. Nei trenta mesi di Intifada, Israele ha
accumulato il debito pubblico più grande della sua storia. Il sostegno degli
Stati Uniti dovrebbe escludere qualunque aiuto indirizzato verso gli
insediamenti ebraici in Cisgiordania. (A.L.)
IL
REGISTA GABRIELE SALVATORES, PREMIO OSCAR PER IL FILM “MEDITERRANEO”, HA
PRESENTATO AL PUBBLICO IL SUO ULTIMO LAVORO “IO NON HO PAURA”
- A
cura di Enzo Natta -
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ROMA. = E’ uscito nelle sale cinematografiche
"Io non ho paura", il film del premio oscar Gabriele Salvatores
tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. In piena estate, nelle vaste e
assolate distese della campagna meridionale, in una zona isolata, un bambino
scopre che in una profonda buca, scavata nel terreno, è tenuto prigioniero un
suo coetaneo: nudo e incatenato come una bestia. Il titolo “io non ho paura”
esprime lo stato d’animo di un bambino di 10 anni di fronte alla scoperta di un
rapimento nel quale sono coinvolti i suoi genitori. Una ribellione della
coscienza, un moto dell’animo, che si manifesta attraverso la fierezza, la dignità
e il senso di solidarietà. La narrazione, l’angolazione dalla quale è
raccontata la vicenda, è quella inquadrata dal punto di vista dei bambini, dei
loro sguardi innocenti così come è innocente la natura in cui loro si muovono
in piena libertà, una natura non ancora contagiata da manipolazioni e infettata
da profondi stravolgimenti, come invece è capitato agli uomini, agli adulti del
luogo. Per rendere più marcato lo spessore di questo contrasto Gabriele
Salvatores ha usato non un linguaggio realista e critico, ma un linguaggio
favolistico, mitico, ancestrale, immerso in un meridione agreste, silenzioso,
fermo nel tempo. Bellissimo il finale: le mani tese dei due bambini richiamano
l’affresco michelangiolesco della Creazione, nella Cappella Sistina, in
un’immagine rovesciata dove la salvezza e la vita sono restituite attraverso il
sacrificio.
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