RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 4 - Testo della
Trasmissione di sabato 4 gennaio 2003
IL PAPA E
LA SANTA SEDE:
OGGI IN
PRIMO PIANO:
CHIESA
E SOCIETA’:
Inaugurato
in Siria il primo Centro cattolico di formazione cristiana.
Bush ha ribadito che “la guerra è l’ultima
opzione”, lasciando intendere che una soluzione diplomatica non sembra vicina.
Intanto cresce nel mondo la protesta contro un attacco
americano all’Iraq.
Il portavoce del dipartimento di Stato americano,
Boucher, ha respinto la richiesta dell’ambasciatore di Pyongyang a Pechino di
una ripresa del dialogo senza condizioni. Il presidente sudcoreano, Roh
Moo-hyun, sta preparando un piano di pace.
Un altro giorno di crisi in Venezuela: ieri a
Caracas nuovi scontri fra manifestanti dell’opposizione e sostenitori del
presidente Chávez: almeno due morti e decine di feriti.
Iniziata ieri in Costa d’Avorio la visita del
ministro degli Esteri francese, de Villepin, che ha ottenuto dal presidente
Gbagbo l’impegno ad un cessate-il-fuoco totale ed a rimandare a casa i
mercenari che supportano l’esercito. Oggi l’incontro con i ribelli, dal 15
gennaio vertice a Parigi.
4 gennaio 2003
LUNEDI’
6 GENNAIO, FESTA DELL’EPIFANIA,
IL PAPA ORDINERA’ 12 NUOVI VESCOVI
DI 3 CONTINENTI
A SOTTOLINEARE LA CONTINUITA’
MISSIONE
DI SALVEZZA DI CRISTO LUCE DELLE
GENTI
CON NOI MONS. CELESTINO MIGLIORE
- A cura di Carla Cotignoli -
Com’è tradizione, lunedì solennità
dell’Epifania del Signore, il Papa
presiederà, nella Basilica di San Pietro, la solenne celebrazione
eucaristica durante la quale ordinerà 12 nuovi vescovi di 8 Paesi di 3
continenti: Corea, Vietnam, Iraq, Benin, Spagna, Slovacchia, Irlanda ed Italia.
Coadiuveranno il Papa per la cerimonia di consacrazione, gli arcivescovi
Leonardo Sandri, sostituto della Segreteria di Stato, e Antonio Maria Vegliò,
segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.
Il rito dell'ordinazione
episcopale, celebrato nella solennità della manifestazione del Verbo incarnato,
evidenzia anche l'Epifania della Chiesa, chiamata ad essere, come Cristo, «luce
delle genti» e punto di incontro per tutti i popoli della terra ai quali Cristo
ha inviato i suoi Apostoli che continuano, nei Vescovi loro successori, la sua
missione di salvezza.
Tra i nuovi vescovi: i neo-nominati segretari della
Congregazione per la dottrina della fede, l’italiano Angelo Amato, e del
Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, l’irlandese Brian Farrell, dei
Legionari di Cristo. Tre i vescovi di
recente incaricati dal Papa come nunzi
apostolici:
in
Asia, Bangladesh, il coreano Paul Tschang In-nam;
in Africa, Togo e Benin, il
vietnamita Pierre Nguyên Van Tot; e
con destinazione da precisare, lo
spagnolo Pedro López Quintana.
Sei i vescovi incaricati del governo pastorale:
In Iraq, Andraos Abouna, vescovo
ausiliare del Patriarcato di Babilonia dei Caldei, in Africa, Benin, per la
diocesi di Abomey Benin, René-Marie Ehuzu; in Slovacchia, diocesi di Presov,
Ján Babjak, gesuita; in Italia, Mazara del Vallo, Calogero La Piana, salesiano.
Lo slovacco Milan Šašik della Concregazione della Missione, nominato amministratore apostolico dell’Eparchia di
Mukacheve in Ucraina; l’italiano Giuseppe Nazzaro, dell’Ordine dei Frati
Minori, vicario apostolico di Alep dei Latini in Siria.
E ancora l’italiano Celestino
Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu a New York. Da 7
anni ricopriva l’incarico di sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, ed
ha capeggiato la missione annuale in Vietnam per intessere rapporti con il
governo e i vescovi del Paese asiatico. Innanzitutto come ha accolto questo
nuovo incarico? Ecco la sua risposta, al microfono di Carla Cotignoli:
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R. – Soprattutto, tanta
gratitudine per il Santo Padre che ha voluto affidarmi questo incarico. Una
missione che ho accolto con grande interesse e, direi anche, con vivo
entusiasmo per le potenzialità che essa rappresenta al servizio della pace e
dell’attenzione per chi non ha modo né possibilità di farsi sentire dai grandi
della terra.
D. – Se potesse esprimere in una
sola parola l’esperienza vissuta in questi anni nel cuore della Chiesa, in
rapporto proprio ai diversi Stati del mondo, che cosa direbbe?
R. – Direi con profonda
soddisfazione che in questo ufficio si misura quotidianamente il grande
spessore della volontà di pace, di giustizia e di servizio alla causa dell’uomo
che alberga non solo nel cuore e nelle intenzioni dei singoli, ma anche delle
istituzioni, in persone con responsabilità di governo. Compito della Santa Sede
è quello di farsi quasi come compagna di viaggio, accompagnare e sostenere
questa buona volontà, in qualunque cuore essa si trovi. E’ una missione di
carattere anche politico e diplomatico ma con un risvolto umano e pastorale
molto gratificante.
D. – Ecco, lei che da tanti anni è
nel campo diplomatico: qual è la virtù più importante in questa funzione?
R. – Io vedo che l’attenzione ai
rapporti umani con le persone con cui si tratta è molto importante: non abbiamo mai problemi, crisi da risolvere,
ma abbiamo soprattutto rapporti umani da instaurare, da ricostruire, da
promuovere. Ed è poi nell’ambito di questa attenzione alla persona con cui si
tratta che scatta anche per le due parti, direi, quella luce necessaria per
vedere le soluzioni giuste e scatta
anche la buona volontà per adottare queste giuste soluzioni.
D. – Lei ha visto dei passi in
avanti, ad esempio, in seguito alle missioni in Vietnam?
R. – Si sono riscontrati
soprattutto nel campo di una sempre più piena libertà di religione, e in questo
senso – anche se tanti passi ancora rimangono da fare – tanti passi sono stati
fatti ed è evidente anche nella stessa vita quotidiana della Chiesa, che è una
vita fiorente.
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IN UDIENZA DAL PAPA IL NUNZIO IN JUGOSLAVIA E IL PRELATO
DELL’OPUS DEI.
NUOVI
AUSILIARI A WESTMINSTER E PROVVISTA DI CHIESA IN KENYA
Il Papa ha ricevuto stamani in udienza l’arcivescovo
Eugenio Sbarbaro, nunzio apostolico nella Repubblica Federale di Jugoslavia. Il
presule ricopre questo incarico diplomatico dal 26 aprile del 2000, dopo essere
stato rappresentante pontificio nelle Antille e in diversi altri Paesi d’Africa
e d’America.
Sempre questa mattina, Giovanni
Paolo II ha ricevuto in udienza il vescovo Javier Echevarrìa Rodrìguez, prelato
della Prelatura dell’Opus Dei. L’udienza pontificia di oggi avviene a tre mesi
dalla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, Josemarìa Escrivà, compiuta
dal Papa in Piazza San Pietro il 6 ottobre del 2002.
In Inghilterra, il Santo Padre ha
nominato ausiliari dell’arcivescovo di Westminster i sacerdoti Alan Stephen
Hopes, finora vicario generale della stessa circoscrizione ecclesiastica, e
Bernard Longley, attuale assistente del segretario generale della Conferenza episcopale,
elevandoli alla dignità vescovile.
Mons. Hopes, che ha 58 anni,
proviene dalla Chiesa anglicana ed ha svolto il ministero parrocchiale in
diverse zone di Londra, diventando poi canonico della cattedrale di Saint Paul.
Nel 1992 è stato ricevuto nella Chiesa cattolica e dopo tre anni di studi è
stato ordinato sacerdote dell’arcidiocesi di Westminster, il 4 dicembre 1995,
divenendo poi parroco a Chelsea e due anni fa vicario generale.
L’altro nuovo vescovo ausiliare di
Westminster, mons. Longley, ha 47 anni ed è stato segretario del Comitato per
l’Unità dei Cristiani della Conferenza episcopale d’Inghilterra e del Galles.
In Eritrea, il Pontefice ha
nominato vescovo dell’eparchia di Keren il sacerdote Abba Kindane Yebio, di 44
anni, finora amministratore eparchiale della stessa sede.
In Kenya, Il Papa ha istituito la
nuova diocesi di Nyahururu, con territorio distaccato dall’arcidiocesi di
Nyeri, rendendola suffraganea della medesima Chiesa metropolitana. Come primo
vescovo di Nyahururu, Giovanni Paolo II ha nominato il sacerdote italiano Luigi
Paiaro, di 68 anni, missionario fidei
donum di Padova.
La nuova diocesi di Nyahururu si
estende su 8 mila kmq e conta più di 670 mila abitanti, dei quali oltre 180
mila cattolici, distribuiti in 26 parrocchie e assistiti da 26 sacerdoti
locali, di cui 8 fidei donum, e tre
missionari. Vi sono inoltre 44 fratelli religiosi, 33 religiose e 15
seminaristi maggiori. (P.Sv.)
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La
prima pagina si apre con la situazione in Iraq: l'Onu si prepara ad accogliere
decine di migliaia di rifugiati.
Nelle
vaticane, la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace nelle diocesi
italiane.
Articoli
sulla solennità dell'Epifania.
Due
pagine dedicate al 160.mo anniversario di fondazione della Pontificia Opera
dell'Infanzia Missionaria.
Nelle
pagine estere, Medio Oriente: Arafat denuncia la costruzione di un muro che
rischia di isolare la città di Gerusalemme.
Corea
del Nord: Washington rifiuta l'avvio di negoziati; Pyongyang deve prima
abbandonare i programmi nucleari.
Nella
pagina culturale, un articolo di Angelo Mundula dal titolo: "Tenerezza da
tenerezza": lo straordinario rapporto di ogni madre con il suo bimbo.
Un
articolo di Claudio Bellinati sul messaggio dell'Epifania in alcuni celebri
esempi iconografci di Ravenna, Roma e Palermo.
Nelle
pagine italiane, il tema delle riforme. La minaccia del terrorismo.
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LA FRANCIA ALLA PROVA DELLA CRISI IVORIANA
-
Intervista con Domenico Quirico -
Nella crisi in atto in Costa
d’Avorio, c’è un particolare ruolo che sta giocando la Francia. La presenza nel
Paese africano di 2.400 militari inviati da Parigi e la visita del ministro De
Villepin ad Abidjan dimostrano la grande attenzione della Francia per la sua ex
colonia, divenuta indipendente nel 1960. Alla base di questo interesse, ragioni
politiche ed economiche, come conferma Domenico Quirico, esperto di questioni
africane del quotidiano “La Stampa”, intervistato da Andrea Sarubbi:
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R. – Gli interessi francesi in
Costa d’Avorio sono giganteschi, nel senso che la Costa d’Avorio costituisce la
seconda economia dell’area dopo quella del gigante nigeriano; in secondo luogo,
la situazione in Costa d’Avorio può avere – come dire – un effetto domino su
tutti i Paesi della regione ed è abbastanza fondamentale per il governo di
Parigi riuscire a mantenere il controllo della situazione e in certa misura
‘imporre’ la sua volontà.
D. – Dopo la fine della
colonizzazione, che cosa è rimasto di francese in Costa d’Avorio?
R. – Fortissimi interessi economici e – diciamo anche – un
modello di rapporti tra ex-potenza coloniale e nuovi Paesi indipendenti ...
diciamo che questa crisi è anche un po’ un test sul modo in cui la Francia come
potenza può intervenire per dirimere eventuali situazioni di crisi nei suoi
ex-domini. Se la Francia riesce a gestire questo tipo di crisi, ha ancora
qualche voce in capitolo in Africa; se invece non riuscirà a svolgere un
compito pacificatore, evidentemente il suo capitolo africano è definitivamente
chiuso. Anche in altri Paesi dell’area.
D. – In base all’Accordo del ’61 ci sono in Costa d’Avorio
2.500 militari francesi; ma la Francia, oggi, che cosa può fare?
R. – Direi ben poco, nel senso che la Francia non ha alcun
tipo di mandato internazionale in questo tipo di intervento. Infatti, si muove
con grande difficoltà all’interno di questa crisi che, tra l’altro, è molto
confusa; insomma, sta lì sostanzialmente senza alcun tipo di autorità. E si
vede anche dal modo in cui si muove: è un modo molto impacciato ... Poi, il
problema è anche di carattere più generale, e cioè quello che riguarda tutte le
crisi africane, come intervenire, chi deve intervenire ... insomma, il
dibattito dura direi dall’epoca della crisi della Somalia ed è sostanzialmente
irrisolto, nel senso che nel frattempo anche in altre aree dell’Africa si sono
verificate apocalissi umanitarie, guerre civili, tribali, spaventose senza che sia
riuscita a definire chi ha la titolarità o l’obbligo di metterci mano. Le
Nazioni Unite se ne tengono sostanzialmente fuori, e questa è una gigantesca
colpa!
D. – Hai detto che la Francia non ha un mandato
internazionale: questo significa da un lato che la Francia non può attaccare
l’esercito ivoriano perché è sovrano nel suo territorio, d’altra parte
significa pure che non può prendere l’iniziativa contro i ribelli ...
R. – Sostanzialmente no. Forse potrebbero risolvere il
problema i ribelli attaccandoli, costringendoli di fatto ad entrare come
protagonisti, non so però con quali rischi nella crisi. Risolverebbero loro il
problema di stabilire cosa possano fare. Non credo abbia neanche stabilito una
linea politica molto precisa, la Francia, in questa situazione.
D. – Passiamo sul fronte diplomatico. Secondo te, che cosa
può risolvere questa visita del ministro francese de Villepin in Costa
d’Avorio?
R. – Io sono abbastanza scettico, devo dire, sulle
possibilità concreti che intervenga un accordo. Io credo che sostanzialmente la
soluzione sarà di tipo militare, nel senso che i ribelli hanno dimostrato di
avere grosse possibilità di allargare il loro controllo sul Paese, prima o poi
potrebbero ‘mangiarsi’ quello che resta del dominio del presidente. Sempre,
naturalmente, che la Francia poi alla fine non decida che sarebbe veramente un
po’ troppo.
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100
GIOVANI DELLA COMUNITA’ PAPA GIOVANNI XXIII HANNO CONCLUSO
IL LORO PERCORSO DI RECUPERO DALLA TOSSICODIPENDENZA:
CON NOI DON ORESTE BENZI E UNO DEI RAGAZZI USCITI DAL TUNNEL
- Il servizio di Amedeo Lomonaco -
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Sono stati oltre 100 i giovani della Comunità “Papa
Giovanni XXIII”, fondata da don Oreste Benzi, festeggiati il 26 dicembre nella
chiesa della Risurrezione a Rimini per la cerimonia che ha felicemente concluso
il loro percorso di recupero dalla tossicodipendenza. L’uscita dalla comunità è
vista come l’inizio di una rinascita che, come ha ricordato don Benzi,
“consiste nella riscoperta del senso della vita e del valore della propria
persona”. In un’atmosfera di grande commozione i ragazzi, tra cui 7 croati e
due russi, davanti ai loro genitori hanno riconosciuto di essere pronti ad
affrontare la vita fuori della comunità. “Non c’è dolore più grande – ha
concluso don Benzi nel corso della messa celebrata dal vescovo Malcom Ranjith –
di quello di una madre che ha un figlio drogato. Così come non c’è gioia più
grande di quella per un figlio libero dalla droga”. Sui metodi utilizzati dagli
operatori della Comunità “Papa Giovanni XXIII” per liberare i ragazzi dalla
tossicodipendenza, ascoltiamo don Oreste Benzi.
R. – Il nostro stile si può così riassumere: “Non ho né
argento, né oro, ma quello che ho te lo do. Nel nome di Cristo, alzati e
cammina”. Questo annuncio, questo dono del Cristo, lo trasmettiamo attraverso
una metodologia ed un impegno di lavoro che dura circa 3 anni. Una terapia con
cui accogliamo questi ragazzi è prima di tutto la terapia della verità, cioè il
coraggio di accettare se stessi come dono da parte di Dio, dono e mistero. Quindi, dare le risposte più profonde
all’essere umano e nel medesimo tempo esigere sempre la continuità dell’impegno
nella coscienza della verità. Poi, la terapia della responsabilità: “Tu non hai
nulla se non te lo guadagni”. E poi la terapia della corresponsabilità, e cioè
la coscienza di popolo: “Tu appartieni ad un popolo, redento da Cristo che,
però, ha la sua base in Dio, del quale noi siamo tutti quanti figli. Ed infine,
la terapia della gioia, l’elemento che rende festosi. Il segreto è, comunque,
la relazione tra operatore e colui che deve essere recuperato alla vita, che
comincia a “sentirsi esistere”, quando “si sente esistere” in un altro, il
quale compie tutto nella pura gratuità e con entusiasmo nella salvezza di un
fratello.
D. - Cosa significa per un ragazzo che ha conosciuto la
droga uscire dalla Comunità dopo aver terminato il proprio percorso di
recupero?
R. – Che è ancora capace di vedere il sole, i fiori, le
piante, gli uomini nelle loro diverse situazioni, e soprattutto sentirsi
immerso nella gioia di avere qualcosa di unico, di essenziale da dare, di
essere Parola irripetibile di Dio, che arriva da Cristo, e viene per il fascino
che Cristo ancora suscita, e perché l’altro sente che in Cristo ritrova se
stesso. Come ha detto bene il Papa: “Cristo rivela l’uomo all’uomo”. E’ quella
la linea che seguiamo.
A testimonianza del prezioso lavoro svolto dalla comunità,
ecco l’esperienza di Giorgio Pollastri, uno dei ragazzi che ha concluso il
proprio percorso di recupero.
R. – Avevo una bella famiglia sana, con la fede, ma dentro
di me avevo sempre un gran senso di vuoto e non arrivavo a capire come dovevo
spendere la mia vita. Tutto questo mi ha portato a frequentare a 14 anni
compagnie sbagliate, ragazzi simili a me: vuoti. Dopo 10 anni di eroina, come
ultima spiaggia sono arrivato a Rimini, nella comunità Giovanni XXIII di don
Oreste Benzi. Tutta la gente della comunità era gente che aveva abbandonato
tutto, che stava in mezzo ai poveri, che non ti chiedeva niente in cambio, ma
si metteva vicino a te cercando di cogliere quello che di bello avevi nel
cuore. Un altro aspetto è che ogni casa famiglia aveva, ed ha anche oggi, una
cappella. Vedendo i ragazzi responsabili di queste case che 2 o 3 volte al
giorno andavano a pregare, mi fece pensare che “se loro entrano in cappella, e
stanno in silenzio per un’ora, vuol dire che lì dentro c’è qualcuno”.
D. - Alla luce della tua esperienza quale consiglio
daresti ad un ragazzo tossicodipendente?
R. – Usare eroina, estasi, alcool è solo una fuga. Trovate
comunità che vi aiutino ad individuare la vostra via.
D. - Quali progetti hai per il futuro?
R. – I progetti li scelgo assieme alla mia comunità,
insieme a mia moglie e al Signore. Da un anno circa hanno dato in dono alla
comunità un albergo che don Oreste, insieme alla comunità, mi ha mandato a
dirigere con mia moglie. Oggi sento dentro al mio cuore che ho tanto ancora da
imparare.
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PASSO AVANTI NELLA COSTRUZIONE DI UN MONDO PIU’ SICURO:
L’ITALIA
COMPLETA IL PROGRAMMA DI DISTRUZIONE DELLE SUE MINE ANTIUOMO
- A
cura di Alessandro Gisotti -
Piccole, colorate, dalle forme più
varie. Tutte però tremendamente letali. Sono le mine antiuomo. Ordigni di
facile produzione dal costo estremamente ridotto ma le cui conseguenze funeste
perdurano negli anni. Una volta disseminate su un territorio, infatti, restano
una minaccia costante per la popolazione. Unico rimedio - costoso e non
semplice - lo sminamento. Ogni anno più di 25 mila persone – tra cui molti
bambini, in oltre 90 nazioni - restano vittime di queste armi. Strumenti di
morte che, proprio per la loro economicità, vengono utilizzati in modo assiduo
nelle guerre tra poveri che affliggono tanta parte del Sud del Mondo.
A seguito di una campagna internazionale, nel 1997 è stato
raggiunto il significativo traguardo della firma di una Convenzione, ad Ottawa
in Canada, per la messa al bando delle mine antipersona. Un documento, promosso
dalle Nazioni Unite, che 49 Paesi non hanno tuttora ratificato. Nella lista dei
produttori di questi ordigni balzano all’occhio i nomi di Russia e Cina, Stati
che assieme posseggono oltre la metà dei 250 milioni di mine antiuomo stoccate
negli arsenali di tutto il mondo. D’altro canto, desta sensazione vedere gli
Stati Uniti d’America accanto a quei Paesi – Iran, Iraq e Corea del Nord – che
il presidente americano Bush ha racchiuso nella formula dell’“asse del male”.
Chi, invece, si sta dimostrando
all’altezza della sfida, una sfida di civiltà è l’Italia, Paese in passato tra
i maggiori produttori di mine antiuomo. Proprio in questi giorni si è concluso
il programma della Difesa italiana per la distruzione dell’intero stock di
mine. Sette milioni di ordigni, pazientemente disassemblati. Sette milioni
di ordigni che non potranno più
mutilare od uccidere in una delle tante guerre dimenticate. Comprensibilmente
la notizia è stata accolta con grande emozione da parte dei promotori in Italia
della campagna antimine. A partire da Tonio Dell’Olio presidente
dell’iniziativa che - al microfono di Debora Donnini - sottolinea come questo
risultato non debba, tuttavia, far perdere di vista l’entità di un fenomeno che
non accenna a diminuire:
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R. – Alla prima notizia,
sicuramente molto bella come appunto la distruzione dell’arsenale di mine
anti-persona a disposizione dell’Italia, ne seguono invece tante altre che –
purtroppo – non hanno lo stesso sapore. Nel settembre dello scorso anno abbiamo
presentato l’annuale relazione sulla situazione di mine anti-persona in giro
per il mondo e abbiamo dovuto registrare che si è avuta l’operazione di messa
in opera di mine anti-persona più grande degli ultimi cinque anni. Si tratta
della frontiera tra l’India e il Pakistan dove abbiamo una situazione paurosa di
posa in opera di mine. Poi abbiamo un altro problema, ed è quello delle cluster-bombs,
le bombe a grappolo che vengono lanciate soprattutto da aerei e assomigliano
moltissimo alle mine anti-persona e che in questo momento non sono messe al
bando.
D. – Ogni anno ci sono circa 26 mila vittime delle mine
anti-uomo. Cosa comporta per gli abitanti di un Paese avere il proprio territorio
cosparso di mine antiuomo?
R. – Quando si pensa alle mine, purtroppo, la nostra
immaginazione – per non averne mai fatto, per fortuna, l’esperienza diretta –
corre a coloro che ne rimangono vittime proprio come feriti o come morti. Le
mine anti-persona, tuttavia, paralizzano l’attività di un territorio in tutti i
sensi, soprattutto nel senso economico, ma anche poi della vita concreta. Se
pensiamo che il più delle volte si tratta di Paesi molto poveri, allora minare
i territori significa paralizzare praticamente l’attività dell’agricoltura e
della pastorizia. Pensate che cosa significa, ad esempio, il fatto che i
bambini diventino vittime delle mine: di fatto, la protesizzazione di un
bambino è molto più costosa e più difficile perché la protesi dovrebbe poi
essere cambiata ed adeguata man mano che il bambino cresce.
D. – Come campagna italiana contro
le mine anti-uomo, cosa state facendo?
R. – La campagna contro le mine si esprime soprattutto in
un’azione politica, cioè quella – appunto – di riuscire a fare pressione quanto
più possibile sia con il nostro governo, in questo momento assolutamente
alleato, perché possa convincere altri governi, altri governi amici a firmare
il Trattato di Ottawa. D’altro canto noi denunciamo con forza il dramma di
tutto questo. Pensate soltanto a quello che può significare per il nostro
governo stringere patti di alleanza con alcuni governi che aspettano
dall’Italia aiuti interni di assistenza umanitaria e se noi vincoliamo
l’assistenza umanitaria alla firma del Trattato di Ottawa: ‘Non ti do aiuti in
termini sociali, sanitari se prima non smetti di produrre o di utilizzare
questi ordigni di morte’.
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RAPITI CINQUE GIORNI FA IN CONGO, DAI RIBELLI LOCALI,
UN MISSIONARIO ITALIANO E UN SACERDOTE DEL CLERO LOCALE.
DALLE NOTIZIE, TRAPELATE OGGI, NON SEMBRA CHE
I DUE SACERDOTI ABBIANO SUBITO VIOLENZE.
L’ONU
E LE AUTORITA’ ITALIANE HANNO AVVIATO I CONTATTI PER IL RILASCIO DEGLI OSTAGGI
- A cura di Emiliano Bos -
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MAMBASA. = Anche la Chiesa locale subisce le conseguenze
dei feroci scontri tra le fazioni armate che da mesi infiammano la regione
dell’Ituri, nell’ex Zaire. Secondo quanto reso noto oggi dall’agenzia
missionaria Misna, un missionario italiano è stato rapito cinque giorni fa nei
dintorni di Mambasa, nel nordest della Repubblica democratica del Congo,
insieme a un sacerdote diocesano locale. I due sacerdoti erano stati fermati
dai miliziani di uno dei gruppi ribelli della zona, mentre si recavano in
visita in un’area, dove gli incessanti combattimenti per la disputa delle
miniere di oro e diamanti hanno provocato in questo periodo più di 130 mila
sfollati. I due rapiti non sarebbero stati maltrattati, ma al momento sono
ancora in ostaggio dei ribelli, che li hanno accusati di essere delle spie. In
queste ore di tensione, i responsabili missionari ed ecclesiastici sono in
contatto con i comandanti militari di queste formazioni armate, e chiedono
l’immediato rilascio dei due religiosi. Decisa e indignata anche la reazione
della missione dell’Onu in Congo, che esige la liberazione dei sacerdoti,
ricordando l’accordo siglato tra i gruppi ribelli, che impone il loro ritiro
dalla città di Mambasa e garantisce la libertà di movimento. Anche l’ambasciata
italiana di Kinshasa è stata informata dell’episodio e si sta attivando per
ottenere il rilascio dei missionari italiani.
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PRESIEDUTI
QUESTA MATTINA DA MONS. FOLEY, NELLA CHIESA ROMANA DI SANTA MARIA DEL ROSARIO,
I FUNERALI DI PADRE PATRICK CASSERLY, MISSIONARIO ED ESPERTO DI
TRASMISSIONI SATELLITARI
PER CONTO DEL PONTIFICIO CONSIGLIO
DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI
ROMA. = “Una persona meravigliosa, un cristiano esemplare
e un grande sacerdote”. Tre “pennellate” per descrivere la personalità e
l’impegno mostrati nei suoi 59 anni di vita da padre Patrick Casserly, il
religioso marista, officiale del Pontificio Consiglio per le comunicazioni
sociali, morto due giorni fa a Roma, dopo una lunga malattia. Il ricordo di
padre Casserly è stato fatto questa mattina - durante la messa funebre nella
chiesa di S. Maria del Rosario - dall’arcivescovo John Foley, presidente del
dicastero nel quale il religioso prestava servizio da tempo, nella sua veste di
esperto di comunicazioni televisive satellitari. Uno dei motivi che aveva
spinto padre Casserly ad interessarsi di trasmissioni via satellite (suo compito
era il coordinamento in occasione delle dirette tv del Pontefice a Natale e a
Pasqua) era la possibilità di far giungere la parola del Papa in ogni angolo
della terra. E la sensibilità missionaria sviluppata nei suoi anni di ministero
in Papua Nuova Guinea e nelle Isole Fiji, ha affermato mons. Foley, lo aveva
portato più volte a denunciare nei consessi internazionali, come rappresentante
della Santa Sede, il problema “del divario digitale” dei Paesi ricchi rispetto
agli Stati con minori mezzi. Era noto il consenso ottenuto dal da padre
Casserly attorno alle sue ripetute richieste di “rendere disponibili alle
popolazioni più povere e lontane i miracoli della moderna tecnologia e tutti i
tipi di informazione”, specialmente quella religiosa. “Un uomo ben preparato e
universalmente rispettato - ha concluso mon Foley – non solo per le sue
conoscenze ma anche per il suo impegno”. (A.D.C.)
IL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE CENTRAFRICANA, PAULIN
POMODIMO,
NOMINATO
DAL CAPO DI STATO DEL PAESE AFRICANO PRINCIPALE MEDIATORE
CON I
RIBELLI DI FRANÇOIS BOZIZE’, IN VISTA DELLA PACIFICAZIONE INTERNA
BANGUI.
= Sarà il capo dei vescovi locali a mediare tra le parti in lotta, in vista
della riconciliazione nazionale della Repubblica Centrafricana. Il presidente
della Conferenza episcopale, Paulin Pomodimo, vescovo della diocesi di
Bossangoa, ha ricevuto un incarico particolare dal capo di Stato, Ange Felix
Patassé, che lo ha voluto in veste di coordinatore dell’iniziativa, avviata
dallo stesso Patassé, per il “‘dialogo nazionale”. Nel suo lavoro volto al
superamento della grave crisi interna provocata dal tentato golpe dell’ottobre
scorso, mons. Pomodimo sarà affiancato da Henri Maidou, già primo ministro ai
tempi dell’ex imperatore Jean-Bedel Bokassa. Una nomina dall’alto valore
simbolico che conferma il ruolo attivo dell’episcopato centrafricano nel
denunciare i soprusi compiuti dai ribelli legati all’ex capo di Stato maggiore,
François Bozizé, che controllano ampie zone nel nord del Paese. D’altra parte,
proprio la città di Bossangoa - sede vescovile di monsignor Pomodimo - è
attualmente la ‘roccaforte’ degli insorti, che hanno occupato anche parte delle
strutture cattoliche. Un politico locale, coperto dall’anonimato – riferisce
l’Agenzia Misna - ha commentato positivamente la scelta del vescovo: “C’era
bisogno di un’autorità morale per coordinare il dialogo nazionale e questo fa
parte dell’apostolato di monsignor Pomodimo. Serviva un uomo di Chiesa, perché
da noi è in corso una crisi di valori spirituali”. (A.D.C.)
INAUGURATO IN SIRIA IL CENTRO DI FORMAZIONE RELIGIOSA, PRIMO
ISTITUTO CATTOLICO DEL PAESE,
VOLUTO
DAL PATRIARCA DEI GRECO-MELKITI, GREGORIOS III
DAMASCO. = Vanta un importante
record il Centro di formazione cristiana inaugurato di recente a Damasco:
quello di essere il primo Istituto cattolico della Siria. La struttura, diretta
dal gesuita siriano padre Rami Elias, è stata fortemente voluta dal Patriarca
di Antiochia dei greco-melkiti cattolici, Gregorios III. Un centro destinato
anzitutto ai fedeli locali adulti, uomini e donne, ma aperto anche agli
appartenenti “di tutte le comunità, senza distinzione né eccezione”. Il Decreto
patriarcale di fondazione precisa le finalità della nuova struttura cattolica,
aperta - si legge - per offrire agli studenti “un alimento per il loro spirito
e per la loro fede che sia di aiuto per la propria vita cristiana, per
l’educazione dei figli nella fede degli antenati, per la loro più incisiva
partecipazione nella vita della propria parrocchia”, come pure per il loro
sostegno alla missione dei sacerdoti in favore della Chiesa e della nazione. Il
Centro conta già 180 iscritti che, nel corso dei tre anni di studio previsti,
affronteranno, tra gli altri, i tradizionali studi di Sacra scrittura, Teologia
dogmatica e morale, Liturgia, Storia della Chiesa, Ecumenismo, Dottrina sociale
della Chiesa, Pastorale. Ma sono in programma anche dei corsi di Musica sacra
(secondo le tradizioni liturgiche greco-melkita, caldea, maronita, sira e
armena), Storia dei monumenti cristiani della Siria, Iconografia sacra e la
creazione di una associazione di scrittori cristiani. (A.D.C.)
DAL PROSSIMO FEBBRAIO, PRIMO IN ITALIA, PARTE IL CORSO
“GESTO E PAROLA”, DEDICATO ALLA FORME DI COMUNICAZIONE LEGATE ALLA LITURGIA.
L’INIZIATIVA E’ PROMOSSA DALLA CEI E DAL CENTRO INTERDISCIPLINARE LATERANENSE
ROMA. = Sollecitati dalle indicazioni degli Orientamenti
pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio degli anni 2000 -
indicazioni che prestano un’attenzione particolare al tema del comunicare - il
Centro Interdisciplinare Lateranense e l’Ufficio Liturgico Nazionale della Cei
hanno promosso, per la prima volta in Italia, il corso biennale di formazione
dal titolo: "Gesto e parola. Le risorse comunicative della liturgia".
Gli studi, la cui prima sessione si
svolgerà dal 17 al 22 febbraio 2003, propongono un’approfondita riflessione scientifica sulle
forme di comunicazione peculiari all’azione liturgica ed una
sperimentazione “guidata” di casi pratici. Il corso si struttura secondo una
formula modulare, con un biennio in quattro sessioni, che si terranno presso la
Pontificia Università Lateranense. La seconda sessione è in programma dal 16 al
21 giugno 2003; le rimanenti due sessioni si terranno nel 2004. (A.D.C.)
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- A cura
di Salvatore Sabatino -
Ancora
una volta in primo piano la delicata crisi tra Stati Uniti e Iraq. “Saddam sa
cosa deve fare per evitare un conflitto”: davanti ai militari della base di
Fort Hood, in Texas, il presidente statunitense, Bush, ha ribadito ieri che “la
guerra è l’ultima opzione”, lasciando però intendere che una soluzione
diplomatica non sarebbe proprio vicina. Da New York ci riferisce Paolo
Mastrolilli:
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Il capo
della casa Bianca ha ribadito che finora i segnali non sono incoraggianti,
tanto perché Baghdad ha sfidato la comunità internazionale per 11 anni, quanto
perché la dichiarazione sulle armi, appena consegnata al Palazzo di Vetro, non
era completa. Alle sue parole sono seguiti subito i fatti, perché il Corpo dei
marines ha mobilitato alcuni reparti che si aggiungeranno presto agli oltre 60
mila soldati già presenti nella regione del Golfo. Ieri mattina le autorità
irachene avevano detto di non credere ai propositi pacifici di Bush,
accusandolo di voler invadere comunque il Paese, mentre due brigate della
guardia repubblicana hanno condotto esercitazioni per il combattimento urbano,
preparandosi al possibile conflitto. Il giornale Financial Times ha
scritto che alcuni leader arabi stanno cercando di convincere Saddam ad
accettare l’esilio per evitare un bagno di sangue, mentre Londra ha convocato
una riunione straordinaria del suo corpo diplomatico per discutere la crisi. Il
capo degli ispettori dell’Onu, Hans Blix, ha confermato che andrà in Iraq prima
di presentare il rapporto del 27 gennaio, ma ha aggiunto che ha molte domande
da porre alla leadership di Baghdad, riguardo alla loro dichiarazione sulle
armi.
Da New
York, per la Radio Vaticana, Paolo Mastrolilli.
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Nel frattempo montano in tutto
il mondo le proteste contro un possibile attacco americano all’Iraq. Ieri
numerose manifestazioni si sono svolte in Pakistan, durante le quali non sono
mancate minacce contro gli americani che risiedono nel Paese. I dimostranti
hanno anche bruciato ritratti del presidente Bush e denunciato la caccia ai
militanti di Al Qaida, scatenata dagli americani in territorio pachistano.
Solidarietà al popolo iracheno è stata espressa anche da centinaia di
manifestanti in Bahrein.
E gli
Stati Uniti stanno fronteggiando anche un’altra crisi internazionale, quella
con la Corea del Nord, provocata dal programma nucleare sviluppato illegalmente
dal Paese asiatico. Questa mattina la Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale di
Pyongyang è tornata a ribadire che la riapertura di centrali nucleari
costituisce un atto di autodifesa legittimo. Intanto l’ambasciatore
nord-coreano a Pechino, Choe Jin Su, ha chiesto a Washington una ripresa del
dialogo senza condizioni, ma il portavoce del dipartimento di Stato americano,
Boucher, ha respinto la proposta. E per discutere della questione si riunirà
lunedì, a Vienna, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica. Secondo fonti
del governo statunitense, gli esperti daranno un termine a Pyongyang, entro cui
rinunciare al programma nucleare. Altrimenti, chiederanno al Consiglio di
Sicurezza dell’Onu di adottare sanzioni.
Veniamo al Venezuela. Un’altra
drammatica giornata di proteste e scontri fra manifestanti dell’opposizione e
sostenitori del presidente Chávez si è conclusa ieri a Caracas con un bilancio
di almeno due morti e decine di feriti. I manifestanti chiedono da oltre un
mese le dimissioni del capo di Stato o elezioni anticipate. Ce ne parla Roberto
Piermarini:
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Tutto è
cominciato quando l’opposizione ha deciso di marciare verso il Forte Etuna, la
più importante caserma delle forze armate venezuelane, per reclamare la libertà
del generale Carlos Alfonso Martinez, rivoltatosi alcune settimane fa contro il
governo. Quando i manifestanti hanno raggiunto l’ingresso della caserma sono
iniziati gli scontri con le forze dell’ordine: molte persone sono cadute a
terra, alcune colpite da oggetti o proiettili di gomma. Da parte sua il
presidente Chavez, appena tornato da Brasilia, dove ha assistito
all’insediamento del presidente Lula, parlando a Caracas con i giornalisti, ha
dichiarato che se fosse costretto dalle circostanze non esiterà a decretare lo
stato di emergenza. Inoltre, il capo dello Stato ha ribadito che non ha alcuna
opposizione che si svolga un referendum in cui si proponga la revoca del suo
mandato, ma questo non può avvenire - ha assicurato - prima del 19 agosto
prossimo, come prevede la costituzione.
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Un
miliardo di dollari per la lotta alla fame piuttosto che per nuovi aerei
militari. Questi i piani del neo presidente brasiliano Inacio Lula da Silva,
che ha rinviato di un anno l'acquisto di una nuova generazione di caccia
supersonici. Il presidente ha specificato che “non si tratta dell'abbandono del
progetto, ma che una spesa del genere non è adeguata al momento che il Paese
sta vivendo”.
Una
nuova offensiva politica ed un invito alle popolazioni indigene ad esercitare
la propria autonomia ed autodeterminazione, senza dover obbligatoriamente
attendere una legge che sia approvata dal Congresso. Questo il senso della
grande manifestazione organizzata dall’Esercito zapatista di liberazione
nazionale (Eznl) in questi giorni a San Cristobal de las Casas, in Chiapas. Il
movimento zapatista, dinanzi ad una folla di 20 mila persone, ha rotto un
silenzio durato due anni, ricordando la sollevazione indigena di nove anni fa.
Dure critiche sono state mosse nei confronti di tutti i partiti politici
nazionali, colpevoli, secondo l’Ezln, di aver disatteso le loro richieste.
Ci trasferiamo in Costa d’Avorio. Dopo aver incontrato ieri il presidente
Gbagbo, il ministro degli Esteri francese, de Villepin, è ora nel quartier
generale dei ribelli, che chiedono a Parigi di rimpatriare i 2.400 militari inviati
in territorio ivoriano. Il governo di Abidjan ha invece chiesto alla Francia
una posizione di netta condanna nei confronti dei guerriglieri, ma
parallelamente ha assunto impegni concreti. Francesca Pierantozzi:
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Dopo un
inizio duro, attaccato da manifestanti che lo hanno definito un terrorista,
Dominique de Villepin comincia a raccogliere i primi frutti del suo difficile
viaggio in Costa d’Avorio. Laurent Gagbo, presidente del Paese dilaniato da una
guerra interetnica, si è impegnato ad instaurare un cessate il fuoco totale e a
liberare tutto il territorio nazionale dai mercenari, che da mesi combattono
accanto alle forze governative. “Ci asterremo” – ha detto il presidente, subito
dopo aver incontrato de Villepin – “da qualsiasi azione di guerra, su tutti i
fronti” – ha aggiunto – “al centro, a nord e ad est”. Se il presidente non ha
fornito una data precisa sull’entrata in vigore del cessate il fuoco, de
Villepin ha parlato di una tregua immediata. La tensione è aumentata dopo il
bombardamento di un villaggio situato nella zona controllata dai ribelli, che
ha provocato 12 morti tra i civili. De Villepin ha annunciato che i
rappresentanti dei principali partiti politici della Costa d’Avorio dovrebbero
incontrarsi a Parigi a partire dal prossimo 15 gennaio.
Francesca
Pierantozzi, da Parigi, per la Radio Vaticana.
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Sconcerto
nel mondo per la nascita di una seconda bambina clonata. La notizia è stata
confermata ieri da Brigitte Boisselier, la
presidente di Clonaid, la società della setta dei raeliani che il 27 dicembre scorso aveva annunciato il
primo caso di clonazione umana. La seconda bimba, ha detto la Boisselier, è figlia di una coppia di donne
omosessuali e nascerà nel fine settimana in Olanda. Intanto Claude Vorilhon,
fondatore e capo del movimento Raeliano, ha contestato la competenza della
magistratura della Florida su Eva, la prima bimba clonata, e non intende
presentarsi all'udienza del 22 gennaio fissata da un giudice della Florida.
La
Lituania torna domani alle urne per eleggere il nuovo presidente. Favorito al
ballottaggio è il capo di Stato uscente, Valdas Adamkus, che al primo turno del
22 dicembre aveva ottenuto 16 punti di vantaggio sul suo rivale, Rolandas
Paksas, ex premier e sindaco di Vilnius.
Sembra per
fortuna essersi ridimensionato il bilancio del tifone che domenica scorsa ha
colpito le isole Salomone. Sull’isola di Tikopia ieri è riuscito ad atterrare
un elicottero e si è potuto constatare
che non ci sono state vittime, al
contrario di quanto era stato comunicato precedentemente. Nessuna smentita,
invece, per quanto riguarda i danni materiali, che a detta dei testimoni
sarebbero “gravissimi”.
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