RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 98 - Testo della
Trasmissione martedì 8 aprile 2003
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI
IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
La minaccia della fame che
incombe sull’Africa denunciata dal Programma Alimentare Mondiale.
Si è concluso il “Forum Asia”,
manifestazione promossa dalla Ong “Manos Unidas” a Madrid
La Caritas
della Repubblica ceca si attiva in favore dei bambini ceceni
Bin Laden incita i musulmani a sollevarsi contro i
governi arabi che sostengono la guerra in Iraq
Nel Congo ex-Zaire, il presidente Kabila è da ieri
a capo del governo di transizione
Al via in Kenya, una nuova tornata negoziale per la
pace in Sudan.
8
aprile 2003
Il Papa
ha ricevuto stamani in udienza il cardinale Ignace Moussa I Daoud, prefetto
della Congregazione per le Chiese Orientali. Nei giorni scorsi, il cardinale
Daoud aveva indirizzato a tutti i vescovi del mondo un appello del dicastero in
vista della tradizionale colletta per i cristiani di Terra Santa, più che mai
bisognosi di sostegno e di solidale vicinanza.
Il
Santo Padre ha pure ricevuto questa mattina l’arcivescovo Luigi De Magistris,
pro-penitenziere maggiore. Il presule aveva incontrato Giovanni Paolo II lo
scorso 28 marzo, in occasione dell’udienza annuale alla Penitenzieria Apostolica.
In Sud
Africa, il Pontefice ha nominato vescovo di Johannesburg il presule mons. Buti
Joseph Tlhagale, degli Oblati di Maria Immacolata, finora arcivescovo di
Bloemfontein. Con la nomina odierna, il nuovo vescovo della diocesi sudafricana
mantiene il titolo personale di arcivescovo.
In Polonia, il Papa ha accettato la rinuncia all’ufficio
di ausiliare dell’arcidio-cesi di Gniezno, presentata dal vescovo mons.
Szczepan Wesoly, per limiti di età. Nel contempo, il Pontefice ha pure
accettato la rinuncia del presule come delegato per la Pastorale degli emigranti
polacchi all’estero.
Il Santo Padre ha quindi nominato ausiliare
dell’arcidiocesi di Gniezno il sacerdote Wojciech Polak, di 38 anni, attuale
rettore del Seminario primaziale, elevandolo alla dignità vescovile.
A QUARANTA ANNI DALLA PACEM IN TERRIS DI GIOVANNI
XXIII:
UN
SEMINARIO DI STUDIO A ROMA GIOVEDI’ E VENERDI’ DI QUESTA SETTIMANA.
CON
NOI IL VESCOVO GIAMPAOLO CREPALDI,
SEGRETARIO
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE
-
Servizio di Giovanni Peduto -
**********
Il
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, unitamente alla Pontificia
Università Lateranense, alla Fondazione Toniolo e alla Rivista la Società, ha
organizzato questo Seminario di studio, il 10 e l’11 aprile, per ricordare il
famoso documento Magisteriale del Beato Papa Giovanni XXIII, dal titolo
significativo ‘A quarant’anni dalla Pacem in Terris: i nuovi segni dei tempi’.
Quale uomo? Quale legittimità e legittimazione in democrazia? Quale
cooperazione internazionale? Su queste domande che interpellano la comunità
culturale, giuridica e internazionale si incontreranno e si confronteranno
alcuni degli studiosi della Dottrina sociale della Chiesa per apportare il loro
contributo accademico alla luce dei nuovi segni dei tempi sul tema della pace.
Seguirà il solenne atto celebrativo alla presenza di autorevoli e prestigiose
autorità del mondo ecclesiale e laico. Ora con noi il segretario del Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace, il vescovo Giampaolo Crepaldi,
moderatore di una delle sessioni del Seminario:
D. – Cosa volle dire al mondo
quarant’anni or sono, Giovanni XXIII, con questa Enciclica?
R. – Pochi giorni fa ho letto
un articolo del compianto cardinale Pavan. Il suo era un articolo di commento
della Pacem in Terris. In questo articolo lui racconta che un giorno Papa
Giovanni gli fece la confidenza relativa all’opportunità di pubblicare un
documento sulla pace. Perché? Due anni prima della Pacem in Terris era stato
innalzato il muro di Berlino e pochi mesi prima c’era stata la crisi drammatica
dei missili a Cuba, che poteva prefigurare una terza guerra mondiale
assolutamente disastrosa, perché sarebbe stata una guerra di carattere
nucleare. Ecco, di fronte a questo scenario il Beato Giovanni XXIII confidò al
cardinal Pavan, che fu uno dei grandi collaboratori nella stesura di questo
straordinario e storico documento giovanneo, il dovere di dire una parola non
solo ai cristiani, ai cattolici, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà,
sulla pace. Di annunciare di nuovo il Vangelo della pace. Dentro questo
scenario complesso e drammatico si collocava l’Enciclica Pacem in Terris. Che
cosa propone questa Enciclica? Dicevo prima il Vangelo della pace, che si
caratterizza soprattutto per la proposta di un ordine nelle relazioni tra gli
uomini e tra le Nazioni basato su 4 grandi pilastri: il pilastro della verità,
il pilastro della giustizia, il pilastro della libertà e il pilastro
dell’amore. Il Concilio Vaticano II dice che la pace non è assenza di guerra,
ma è soprattutto un ordine fondato su questi 4 grandi valori e la Pacem in
Terris ebbe questo ruolo straordinario dentro questo scenario nel proporre
queste straordinarie e mirabili esigenze.
D. – Lei ha parlato
giustamente di scenario drammatico del tempo in cui è uscita l’Enciclica di
Giovanni XXIII, ma un non meno drammatico scenario stiamo vivendo in questi
giorni. Qual è, dunque, l’attualità del messaggio giovanneo oggi, specialmente
in questo momento particolare?
R. – Quarant’anni fa il Beato
Giovanni XXIII, di fronte allo scenario drammatico, propose il Vangelo della
pace tramite la Pacem in Terris. Il Santo Padre Giovanni Paolo II di fronte
allo scenario altrettanto drammatico, diverso, certamente, ma altrettanto
drammatico dei giorni nostri, ha ripreso quell’Enciclica del Beato Giovanni
XXIII e l’ha riproposta tramite il messaggio per la giornata mondiale della
pace di quest’anno, che porta proprio questo titolo, ‘Pacem in Terris: un
impegno permanente’. Ripropone quel messaggio, in un certo senso aggiornandolo,
perché se quarant’anni fa, per esempio, il mondo era caratterizzato da un certo
fondamentalismo politico, oggi c’è il rischio di un certo fondamentalismo
religioso con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Se quarant’anni fa,
per esempio, c’era la situazione di due blocchi che si contrapponevano in un
confronto molto duro, oggi, forse c’è la mancanza di dialogo, c’è una certa
dispersione: quindi c’è bisogno di riprendere una prospettiva di unità della
famiglia umana, di ricomporre le relazioni internazionali in termini di fiducia,
di dare una prospettiva nuova alle istituzioni internazionali. E il Santo
Padre, in questo suo messaggio offre tutta una serie di prospettive che
aggiornano il messaggio della Pacem in Terris e che nello stesso tempo vengono
incontro a quelle che sono le esigenze del nostro tempo.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
“Concreta e generosa solidarietà
per garantire assistenza all’inerme popolazione civile” è il titolo che apre la
prima pagina, con riferimento all’impegno svolto dalle diverse agenzie
umanitarie in Iraq a beneficio di coloro che sono segnati dal dolore e dal
bisogno.
Sempre in prima, il calendario
delle celebrazioni della Settimana Santa 2003 presiedute da Giovanni Paolo II.
Nelle vaticane, una pagina sul
tema “Domenica 27 aprile: la beatificazione di don Giacomo Alberione”; un
approfondito contributo del cardinale Saraiva Martins.
Una pagina in occasione del 25.mo
di ordinazione sacerdotale di mons. Serafino Sprovieri, arcivescovo di
Benevento.
Nelle pagine estere, si
combatte nelle strade di Baghdad.
Il vertice tra Bush e Blair in
Irlanda del Nord.
Medio Oriente: Berlino e Mosca
cercano di rilanciare il dialogo.
Nuovi sanguinosi scontri nella
Repubblica Democratica del Congo.
Nella pagina culturale, un articolo
di Giuseppe Degli Agosti dal titolo: “Picasso, Dalì e Mirò nella Parigi del
primo Novecento”: dipinti di artisti catalani in una mostra a Cremona.
Nell’“Osservatore libri”, un contributo di Danilo
Veneruso dal titolo: “Dall'ideologia della rivoluzione alla realizzazione della
perestrojka”: “Memoria e avvenire della Russia” di Aleksandr Jakovlev.
Nelle pagine italiane, in primo
piano la devoluzione.
In rilievo anche il tema della
sanità.
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8
aprile 2003
LA
TRUPPE AMERICANE PER LE STRADE DI BAGHDAD
ALLA
RICERCA DEI VERTICI MILITARI IRACHENI.
TRA LE
VITTIME DEGLI ULTIMI BOMBARDAMENTI
ANCHE
ALCUNI GIORNALISTI STRANIERI.
IN
ULSTER, BUSH E BLAIR PIANIFICANO IL DOPO-SADDAM,
RICONOSCENDO
ALL’ONU UN RUOLO DI PRIMO PIANO
- A
cura di Alessandro De Carolis -
Le truppe americane che ingrossano di ora in ora tra le
vie di Baghdad. I missili che martellano nella notte uno dei palazzi
presidenziali, nel tentativo di colpire Saddam Hussein e decapitare il regime.
Centinaia di civili in fuga da una guerra che infine è arrivata dentro le loro
case. I giornalisti sempre più a rischio, esposti ai tiri di un fuoco che non
fa distinzioni. E’ questo in sintesi il quadro della situazione al 20.mo giorno
di conflitto nel Golfo. “Continuiamo a muoverci in città”, ha confermato
qualche ora fa il Centcom, il Comando centrale alleato in Qatar. Una città
nella quale sta crescendo il caos e la paura dei civili e dove anche i livelli
minimi di sicurezza sembrano venir meno, come testimonia il colpo di cannone
esploso da un carro armato statunitense - episodio confermato dagli alleati -
contro l’Hotel Palestine, che ospita la maggior parte degli inviati di
guerra internazionali. Cinque i giornalisti rimasti feriti - diversi
appartenenti all’agenzia Reuters -
ai quali va aggiunta la morte, avvenuta in mattinata, di un giornalista della televisione
Al Jazeera, ucciso da un bombardamento che aveva colpito la sede
dell’emittente televisiva araba. Giancarlo La Vella è riuscito a contattare
pochi istanti fa la giornalista Mediaset, Anna Migotto, che si trovava in
albergo al momento dell’accaduto:
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R. – Fin da questa mattina, attorno alle 6.30, stavamo
tutti ai piani alti dell’Hotel Palestine per filmare la battaglia per la
conquista di un ponte dall’importanza strategica, una battaglia molto violenta
da entrambe le parti. Ad un certo punto abbiamo sentito una fortissima
esplosione e abbiamo capito che era stato colpito il nostro albergo. Io
personalmente ero al 14° piano e non era chiaro quale zona fosse stata colpita
dell’edificio. Successivamente ci siamo resi conto che erano state centrate, da
un missile o da una bomba, una stanza al 14° piano e una stanza al 15° piano.
Al 15° piano c’erano dei colleghi della Reuters e uno di loro, un cameraman di
origine ucraina, è rimasto ucciso, insieme ad un operatore della televisione
spagnola Telecinco. Altri tre sono rimasti feriti. Nel locale
sottostante c’erano i giornalisti dell’emittente spagnola Telecinco, ed il
cameraman è stato gravemente ferito.
D. – Il comandante americano ha detto che nell’albergo
c’erano dei cecchini, per questo le truppe americane avrebbero sparato. Voi vi
siete mai accorti di questo?
R. – Sicuramente, all’ultimo piano non c’erano dei
cecchini. Non abbiamo sentito partire colpi di fucile dall’albergo e neanche
altro tipo di proiettile. Gli americani sostengono di avere risposto in qualche
modo al fuoco, ma resta il fatto che un collega è stato ucciso. E’ una giornata
di lutto questa anche per noi giornalisti.
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Negli ospedali di Baghdad, intanto, medici e infermieri
continuano a lavorare “in condizioni terribili”, ha riferito ieri dalla
capitale irachena Roland Huguenin-Bejamin, un portavoce del Cicr, il Comitato
della Croce Rossa internazionale. E stamani, l’ambasciatore iracheno a Mosca,
Abbas Khalaf, ha tracciato un bilancio impressionante: “Sono seimila i civili
morti e feriti durante la guerra, soprattutto donne e bambini”, ha detto,
aggiungendo che è ancora impossibile fare stime dei soldati morti in battaglia.
Tra i sopravvissuti, l’emergenza umanitaria sta facendosi via via sempre più
pesante. Ma quanto ancora dureranno le riserve di cibo per la popolazione
irachena? Alessandro Gisotti lo ha chiesto Vichi De Marchi, portavoce per
l’Italia del Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu:
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R. – Noi pensiamo che la famiglia media irachena abbia
ancora a disposizione cibo fino alla fine di aprile. Però, ovviamente, come
tutte le medie contempla delle inesattezze, nel senso che le famiglie più
povere saranno quelle che risentiranno della mancanza di alimenti molto prima.
Speriamo che presto si possa sbloccare la situazione e quindi che si aprano dei
corridoi umanitari per entrare in Iraq.
D. – Quali sono gli interventi più significativi che il
Pam sta attuando in Iraq?
R. – Ci sono una serie di test che riguardano i porti, i
trasporti e soprattutto le reti ferroviarie. Però, il progetto del Pam è un
progetto, e un piano, che si dovrebbe svolgere nell’arco di sei mesi, con una
prima fase che è questa: quella di portare assistenza dove è possibile, ai
confini. Ed è quello che in qualche modo si sta facendo. Attraverso la Turchia,
infatti, siamo entrati nel nord dell’Iraq. Poi, la prima preoccupazione è
quella di far sì che il sistema di distribuzione pubblica del cibo, che
funzionava anche prima della guerra, sia in qualche modo rimesso in piedi,
riutilizzato, perché è impossibile ricostruire un sistema così capillare, come
quello che era in funzione, che si basava su 44 mila punti di smistamento degli
alimenti. Quindi, un sistema che garantisca il fatto di poter arrivare a tutti.
D. – Mentre il popolo iracheno soffre la fame da ormai 12
anni, a causa dell’embargo, ieri per la prima volta il mondo ha potuto vedere
lo sfarzo dei palazzi presidenziali di Saddam. Da dove bisognerà partire nella
ricostruzione post-bellica dell’Iraq?
R. – Io credo che molti soggetti saranno coinvolti in
questa ricostruzione e credo che le Nazioni Unite debbano avere un ruolo fondamentale
in questo lavoro futuro. Penso che noi, come Programma Alimentare Mondiale, dobbiamo
fare lo sforzo maggiore affinché non si creino, neppure per poche settimane,
momenti di vera frattura dal punto di vista alimentare. Per noi la preoccupazione
maggiore è garantire che la gente mangi.
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La
crisi umanitaria è anche il primo compito dell’amministrazione provvisoria
civile americana in Iraq, insediatasi oggi a Umm Qasr, nel sud del Paese, con
una squadra di una ventina di funzionari. Ma in maniera molto più ampia, la gestione
del dopo-Saddam e la questione del riassetto mediorientale sono al centro da
ieri del vertice nordirlandese che vede di fronte il premier britannico Tony
Blair e il presidente americano George Bush. Nel castello di Hillsborough, non
lontano da Belfast, i due leader hanno concordato alcuni punti dai quali ripartire
per la rinascita democratica dell’Iraq. Sentiamo quali, nel servizio da Belfast
di Enzo Farinella:
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Le Nazioni Unite avranno un ruolo vitale nella
ricostruzione dell’Iraq: lo hanno affermato il presidente americano George Bush
e il primo ministro inglese Tony Blair durante la conferenza stampa tenuta nel
castello di Hillborough. “Gli iracheni hanno la capacità di governarsi; ad
interim, noi li aiuteremo ed anche le Nazioni Unite verranno coinvolte, anche
se la responsabilità finale appartiene tutta agli iracheni”, ha detto George
Bush. “Lavoreremo – ha aggiunto Tony Blair – tutti insieme, per il bene
dell’Iraq”, cercando in questo modo di dissipare dubbi sul ruolo delle Nazioni
Unite nella ricostruzione. Una volta che le forze di coalizione libereranno
questa Nazione dall’oppressione di Saddam, un governo di transizione, in cui
saranno rappresentati oltre alle forze di liberazione, anche le Nazioni Unite e
gli stessi iracheni, si prenderà cura di creare il nuovo Iraq amministrato da
leggi e non dal despotismo di una persona. Il presidente americano ha lodato
l’operato delle forze di coalizione affermando: “Le nostre truppe combattono in
Iraq per la nostra sicurezza, la pace e la dignità umana di tutti. Esse hanno
agito con coraggio e umanità. Ne siamo orgogliosi”. Riferendosi a Saddam ha
detto: “Non so se Saddam è sopravvissuto, ma certamente sta perdendo potere e
noi stiamo liberando gli iracheni”.
Da Belfast per la Radio Vaticana, Enzo Farinella.
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Un’immagine
positiva, ancorché figlia del dramma della guerra, arriva dal versante nord del
conflitto. Ad Erbil, in uno degli ospedali di Emergency -
l’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada - è accaduto che un medico
curdo abbia curato un ferito di guerra iracheno, senza che l’odio tra i due
popoli inducesse il primo ad un qualche gesto di discriminazione. Una storia
bella e necessaria per un’area, il Kurdistan iracheno, che sta affiancando gli
alleati, in attesa della caduta di
Baghdad. Lo conferma l’inviato speciale di Avvenire, Luigi Geninazzi,
intervistato da Roberto Piermarini:
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R. - C’è grande attesa, nel Kurdistan per quello che
potrebbe succedere a Kirkuk e a Mosul, le due città ancora nelle mani del regime
di Saddam Hussein, però gli occhi sono puntati su Baghdad. Tutti i capi dei
partiti curdi sono unanimi nel dire che le forze militari a loro disposizione
potrebbero entrare già nelle prossime ore, nei prossimi giorni, a Kirkouk e
Mossul, ma non lo faranno, perché si attende il via libera degli americani. In
poche parole si attende l’ordine dal Pentagono, perché il problema di
un’occupazione curda da parte di queste due città, provocherebbe l’irritazione
della Turchia, provocherebbe cioè dei grossi problemi politici. Quindi è chiaro
che prima di tutto, almeno a quanto sembra di capire, bisogna risolvere il
problema di Baghdad. Bisognerà aspettare la caduta del regime, poi si vedrà
quale sarà l’evoluzione qui al Nord.
D. – Geninazzi, ma come potrà essere accolto l’ingresso
delle truppe curde a Kirkouk?
R. – L’ingresso delle truppe curde a Kirkouk provocherà
festa nei curdi, perché sarà una festa della liberazione, ma il timore nelle
minoranze turche, tra gli arabi, e quindi c’è il timore che si scatenino
vendette e cose del genere.
D. – Ecco, qual è la situazione umanitaria nella zona dove
stai operando?
R. – Diciamo che alla vigilia e poi nei primi giorni della
guerra nel Kurdistan c’è stato una certa preoccupazione umanitaria, perché
tutti quelli che potevano fuggivano da Kirkouk e da Mossul, dai villaggi
vicini, cioè dal fronte di guerra, adesso la situazione si è un pò rovesciata
nel senso che la gente è un pò più tranquilla, spera di tornare presto nei suoi
villaggi, nelle sue città, ma c’è, pare, una crisi umanitaria dalla parte
irachena, cioè sembra che gli ospedali di Mossul e Kirkouk siano pieni di gente
e gli abitanti di queste città sotto il pugno di ferro del regime di Saddam
Hussein stiano soffrendo molto e cerchino di scappare. Ci sono gli arabi che
sono scappati dai villaggi che erano stati una volta curdi. Quindi diciamo che
la crisi umanitaria si sta verificando da quella parte.
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Come detto, gli alleati stanno intensificando i
bombardamenti allo scopo di colpire Saddam Hussein, bersaglio principale delle
ultime ore di attacchi. Ma quale scenario potrebbe prendere vita nel mondo
arabo con la scomparsa del rais iracheno? L’opinione di Antonio Ferrari,
inviato speciale a Damasco del Corriere della sera:
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R. - E’ vero, gli americani hanno detto più volte:
L’obiettivo è Saddam. Bisogna eliminare Saddam, o comunque bisogna catturare
Saddam”. Però se Saddam alla fine resta, o non si riesce a trovare, questo
rischia di indebolire quello che è il significato, il simbolismo di questa
campagna militare. Che cosa cambia per il mondo arabo? Il mondo arabo, come
sappiamo, non ha mai amato Saddam Hussein, neanche quando Saddam Hussein era
più popolare di quanto sia oggi. Non lo hanno mai amato, perchè sanno che ha
provocato per oltre 20 anni sofferenze al suo popolo. Ora, la morte forse
cambierebbe molto poco. La gente soffrirebbe molto di più nel vedere i civili
iracheni soffrire, morire, che non vedere lo stesso per Saddam Hussein. Certo,
se si dovesse riproporre una situazione di tipo afgano, con Saddam Hussein e
qualcuno dei suoi pretoriani che riesce comunque a salvarsi, allora questo
sarebbe alimentare quei dubbi espressi da molti su questa guerra, che il vero
obiettivo non erano le armi di distruzione di massa, ma il vero obiettivo era
quello di controllare per lungo tempo l’Iraq. E probabilmente è quello che si
sta materializzando.
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Non solo le masse dei cittadini delle metropoli del
pianeta si sono mobilitate in continuazione per protestare contro la guerra in
Iraq. Lo ha fatto anche il mondo della cultura. Come nel caso del concerto di
ieri per i 700 anni della fondazione dell’Università degli studi di Roma La
Sapienza. Un concerto sulle arie di Mozart e interamente dedicato alla pace,
diretto dal maestro Riccardo Muti, alla testa della Filarmonica della Scala di
Milano. Prima dell’esecuzione, Muti si è rivolto alla platea, in mezzo alla
quale un nutrito gruppo di universitari manifestava contro la guerra in Iraq,
testimoniando il suo impegno personale in tal senso:
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(musica)
R. – Dal 1997, abbiamo girato il mondo proprio nel segno della pace.
Siamo stati i primi ad atterrare a Sarajevo. A ritorno dal concerto, abbiamo
attraversato anche un campo minato. Non sto sottolineando un atto di eroismo,
sto sottolineando il messaggio che abbiamo portato a Sarajevo, a Beirut a Gerusalemme.
Lo abbiamo fatto in 24 ore: una sera a Jerevan e quella successiva ad Istanbul.
Due popoli, quello turco e quello armeno, che ancora oggi sono in completa
inimicizia. Non c’è niente da celebrare nel mondo di oggi, se non il dolore. E
la musica che noi portiamo, oltre che di speranza e gioia, è musica di dolore.
L’Adagio della “Gran Partita” di Mozart sottolinea il dolore di un uomo che
meglio di qualsiasi altro ha espresso in musica e condannato la violenza, la
brutalità, la sopraffazione, la tirannia. Noi siamo qui per questo, per la
parola pace, alla quale abbiamo dedicato pochi giorni fa la rappresentazione
del “Fidelio”, il più alto testamento di fratellanza scritto da Beethoven, che
si conclude con le parole: “Il fratello cerchi il suo fratello”.
(musica)
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Ogni guerra ha un prezzo sempre molto alto che i Paesi
coinvolti debbono pagare: in vite umane, in danni materiali, in ferite
psicologiche, in rivendicazioni territoriali, razziali, politiche. Ma è
soprattutto il dato umano che resta lo scotto maggiore di ogni conflitto.
Ascoltiamo il nostro direttore generale, padre Pasquale Borgomeo:
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R. – Sono passate quasi tre
settimane di distruzioni, di orrore e di sangue, e ancora si combatte, e ancora
si muore. Intanto, la città è cinta d’assedio e per i civili è diventato sempre
più difficile e rischioso uscirne. Si era temuta prima della guerra una
catastrofe umanitaria per l’esodo previsto di due milioni di profughi, che
nessuna istituzione umanitaria sarebbe stata in grado di assistere. Catastrofe
umanitaria si profila ora anche per la popolazione che è restata nella capitale
ostaggio di Saddam. Non si vede infatti come la popolazione di un’immensa
città, quale è la capitale irachena, possa sopravvivere ad un prolungato
assedio o come possa restare indenne quando le sue strade e le sue case
diventano campo di battaglia. Le varie istituzioni umanitarie internazionali
cercheranno in ogni modo di portare soccorso. Ma intanto, un interrogativo non
eludibile, tormenta le nostre coscienze. Chi protegge uomini, donne, vecchi e
bambini di Baghdad? Non certo Saddam Hussein, che piuttosto se ne fa scudo. E
allora chi? Chiameremo tranquillamente ‘danni collaterali’ la strage di esseri
innocenti? E chi avrà interesse a contarle le vittime civili, se a tutt’oggi,
nonostante le testimonianze frammentarie che ci giungono attraverso i media,
non riusciamo a farci un’idea almeno approssimativa del tributo di sangue
pagato dalla popolazione irachena? Che Dio onnipotente e misericordioso, Dio di
amore e di pace, Padre di tutti, abbia pietà di tutti i combattenti e
popolazione inerme, e liberi dalla follia della guerra una umanità che oggi,
come non mai, dà voce alla sua profonda aspirazione alla pace.
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UNA
RIEVOCAZIONE DI PADRE ANGELO ARPA, MORTO LO SCORSO 27 MARZO,
IL
GESUITA STUDIOSO DI CINEMA CHE CONTRIBUI’
ALLA
RILETTURA ED ALLA DIFFUSIONE DEL NEOREALISMO IN ITALIA
-
Intervista con padre Virginio Fantuzzi -
Si è spento lo scorso 27 marzo a Roma padre Angelo Arpa,
il gesuita che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla divulgazione
del cinema italiano d’autore, entrando in contatto con alcuni tra i più grandi
protagonisti del grande schermo del secolo scorso. Ideatore nell’immediato
dopoguerra del primo Cineforum in Italia, per oltre quarant’anni padre Arpa è
stato amico e collaboratore di Federico Fellini e di altri esponenti del
neorealismo italiano come Roberto Rossellini e Pierpaolo Pasolini, nelle cui
produzioni molto discusse dalla cultura cattolica del tempo riconobbe valori
non soltanto artistici ma anche di carattere morale e perfino religiosi. Maria
di Maggio ha sentito per noi padre Virginio Fantuzzi, giornalista della rivista
“La Civiltà Cattolica”.
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R. – Padre Arpa ha avuto una vita avventurosa e diciamo
così, molto varia. Se vogliamo cominciare dagli anni del dopo guerra, quando
lui stava all’Istituto Areppo di Genova, e svolgeva apostolato giovanile, ecco
che vediamo padre Arpa nei suoi primi contatti con il cinema. Si serviva del
cinema come strumento di apostolato nell’ambito di una attività che possiamo
indicare nel senso generale come cineforum. Quindi dibattiti su film di
interesse religioso e spirituale e successivamente, dal momento che lui si
serviva del cinema per lanciare degli stimoli di conversazione con i giovani e
i non giovani, con le persone alle quali si rivolgeva la sua attività
apostolica, siccome tutto questo non gli bastava ha fondato una sua casa di
produzione cinematografica che si chiamava la Golden Star, con la quale ha
realizzato anche un film di Roberto Rossellini che si intitola ‘Era notte a
Roma’. Quindi, a questo punto non era soltanto uno che commentava i film, ma è
entrato lui stesso nei meccanismi della produzione cinematografica.
D. – Padre
Arpa, quindi fu tra i primi estimatori del neo-realismo italiano, inizialmente
e duramente criticato dal mondo cattolico. Ma padre Arpa come svolse questa
funzione di tramite fra la cultura cattolica del tempo ed il neo-realismo
italiano?
R. – Il
neorealismo italiano è un cinema tutto pieno di fermenti religiosi e spirituali
che però sono sempre nascosti dietro vicende che a volte non sono direttamente
edificanti. Allora c’era un atteggiamento ufficiale della Chiesa, dal quale
padre Arpa si distaccava, perché lui prendeva altre strade e di fronte certi
film, come quelli di Pasolini, dove si sentiva parlare da parte dei cosiddetti
critici cattolici, di ambienti squallidi e situazioni improponibili, cose condannabili,
padre Arpa aveva un atteggiamento completamente diverso, perché aveva una sua
capacità di mettersi in sintonia con queste personalità, diciamo così, aperte
alla dimensione spirituale anche se andavano per strade che non sono proprio
quelle della ortodossia cattolica.
D. –
L’interesse per il cinema portò padre Arpa a frequentare maestri del tempo come
Roberto Rossellini e Federico Fellini. Soprattutto a Federico Fellini padre
Arpa fu legato da una sincera amicizia. Padre Fantuzzi, cosa può raccontarci a
riguardo?
R. – Padre Arpa
ricordava le telefonate che Fellini gli faceva immancabilmente tutte le
domeniche mattina, in cui passavano in rassegna tutti gli avvenimenti della
settimana e quanto questi appuntamenti gli mancassero dopo che Fellini non
c’era più. Oltre ad essere molto amici erano anche collaboratori e padre Arpa
ci teneva a sottolinearlo, nel senso che Fellini sottoponeva a padre Arpa i
suoi progetti cinematografici e la collaborazione di padre Arpa era richiesta
soprattutto negli aspetti di questi film dove o c’era di mezzo la figura di un
ecclesiastico oppure la tematica si avvicinava ad argomenti di tipo morale,
spirituale o religioso.
D. – Padre Fantuzzi, a suo avviso qual è l’eredità di
padre Angelo Arpa?
R. – Ecco, Gesù
dice nel Vangelo “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”: padre Arpa è uno che è sempre uscito fuori
da tutti gli schemi. Credo che questo sia di stimolo a tutti quelli che l’hanno
conosciuto ed apprezzato, perché è un modo, per chiunque lo abbia conosciuto,
di mettersi in contatto, attraverso di lui, attraverso il suo ricordo,
attraverso la sua eredità, con questo appello alla libertà, che è la libertà
dei figli di Dio.
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8
aprile 2003
MEDAGLIA
D’ORO A CARLO URBANI PER I MERITI NELLA RICERCA
SULLA
POLMONITE ATIPICA; IL VIRUS PRENDERÀ IL NOME DEL RICERCATORE ITALIANO
- A
cura di Stefano Cavallo -
ROMA. =
La polmonite atipica, diffusasi in questi giorni in tutto il mondo, ha assunto
da ieri il nome di 'Sars Urbani': è un piccolo riconoscimento all’opera del
medico infettivologo Carlo Urbani – che per primo ha isolato la malattia –
morto a Bangkok lo scorso 29 marzo, dopo aver contratto l’infezione con il
virus della polmonite atipica. Alcuni giorni fa il parroco di Castelplanio, don
Mariano Piccotti, aveva ricordato l’amico medico, che “ha posto la sua voglia
di volare alto al servizio di chi è indifeso”, facendolo “con rigore
intellettuale, ma soprattutto spinto dalla fede.” Nel corso della prima
Giornata italiana della Sanità, celebrata ieri pomeriggio al Quirinale, a
Urbani è stata inoltre attribuita la medaglia d'oro al merito della Sanità
pubblica “per l'attività sociale e sanitaria offerta con generosità e
silenziosamente alle popolazioni più diseredate, spingendosi volontariamente
oltre le frontiere della civiltà, curando gli altri, dimenticandosi di sé
stesso, pur amando fortemente la vita”. Il presidente italiano Carlo
Azeglio Ciampi ha definito il dott.
Urbani come “un eroe” dell'Organizzazione mondiale della sanità e anche per la
Repubblica italiana. A ritirare il riconoscimento per lui, tra gli applausi
commossi, i tre figli e la moglie Giuliana, che con grande forza ha ribadito di
voler "portare avanti l'impegno di aiuto e di solidarietà verso chi ha
bisogno”. “In questa giornata dedicata alla sanità e alla salute pubblica – ha
continuato il presidente Ciampi – abbiamo il dovere di onorare la memoria di un
medico, di un cittadino coraggioso, di un padre e di un marito strappato ai
suoi cari mentre indagava un morbo terribile e sconosciuto […]. Carlo Urbani ci
lascia un insegnamento prezioso che scuote la coscienza di ciascuno di noi”.
Dopo aver ricordato coloro che in Italia sono stati protagonisti, combattendo
malattie endemiche (dalla Spagnola al Tifo, dal Colera alla Malaria), il
presidente ha insistito sull’importanza di “affrontare con determinazione il
divario di povertà e di condizioni di vita con il Sud del mondo.
Disinteressarci di questo problema – ha continuato – è la premessa di nuovi
conflitti, di nuove tragedie”. Parole di encomio e di ammirazione sono andate
al medico italiano anche da parte del ministro della sanità Girolamo Sirchia,
che lo ha definito “un eroe riservatissimo e silenzioso; un esempio di vita
cristiana vera; un uomo che lavorava in silenzio e modestia, molto amato da
quanti lo conoscevano e che hanno colto il valore dell'uomo”.
“PERCHÉ
IN AFRICA ACCETTIAMO COME NORMALE UN LIVELLO DI SOFFERENZA,
CHE
MAI ACCETTEREMMO IN QUALUNQUE ALTRA PARTE DEL MONDO?”
COSÌ
IL RESPONSABILE DEL PAM, DURANTE LA PRESENTAZIONE DI UN RAPPORTO
SULLA
SITUAZIONE ALIMENTARE IN AFRICA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA:
40
MILIONI DI PERSONE RISCHIANO DI MORIRE DI FAME
NEW
YORK. = Il conflitto iracheno con il suo dramma umanitario, non deve distogliere
l’attenzione della comunità internazionale dalla tragedia vissuta da altri
Paesi, devastati da guerre, carestie ed epidemie. A ricordarlo al Consiglio di
sicurezza dell’Onu è stato ieri il direttore esecutivo del Programma alimentare
mondiale, lo statunitense James Morris. Reduce da un viaggio in Africa, ha
presentato all’organismo dell’Onu un dettagliato rapporto sulla situazione
alimentare di Etiopia, Eritrea, Africa orientale e sub-sahariana: circa 40
milioni di persone rischiano di morire di fame. “Ognuno di voi – ha esortato
Morris – può fare molto di più per destinare attenzione e risorse alla crisi
alimentare africana”. Morris, ha illustrato le attività che l’organismo da lui
diretto svolge in Africa: tra rifugiati e sfollati interni, sono circa 7
milioni e 500 mila le persone che ricevono aiuti. Le difficoltà nascono dalla
mancanza di fondi: i donatori non intervengono in maniera adeguata. “Per quanto
non mi piaccia – ha detto con decisione Morris – non posso non pensare che abbiamo
due diversi metri di giudizio. Perché in Africa accettiamo come normale un
livello di sofferenza, che mai accetteremmo in qualunque altra parte del mondo?
Non possiamo sopportare questa situazione”. Dall’analisi di Morris emerge un
continente che soffre la siccità, il fallimento delle politiche economiche, le
frequenti guerre civili e l’ampia epidemia di Aids: tutti questi fattori
contribuiscono alla crisi alimentare che i governi non riescono a fronteggiare.
(M.A.)
QUALI
SONO LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO DEL CONTINENTE ASIATICO?
NE
HANNO PARLATO A MADRID I PARTECIPANTI AL “FORUM ASIA”, PROMOSSO
DALLA ONGSPAGNOLA “ MANOS UNIDAS”. DIALOGO E
RISPETTO
TRA LA
DIVERSE COMPONENTI ETNICHE LA VIA DA SEGUIRE
MADRID.
= Si è concluso con un appello in favore della mutua collaborazione e del
rispetto delle identità culturali tra le diverse popolazioni del continente, il
“Forum Asia”, manifestazione promossa dalla Ong “Manos Unidas”, che si è svolta
a Madrid la scorsa settimana. Dal 3 al 5 aprile, diversi relatori tra cui
l’arcivescovo di Madrid, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ed il nunzio
apostolico in Spagna, l’arcivescovo Manuel Monteiro de Castro, hanno analizzato
le prospettive di crescita economica, politica, demografica e culturale del
continente asiatico. “Lo sviluppo umano e sostenibile – si legge nel documento
finale – non può rispondere ad una logica di beneficio economico, ma deve tener
conto dei diritti e delle necessità degli individui”. Approfondendo il tema “Lo
sviluppo, cammino della pace”, il congresso ha affrontato le principali
problematiche del continente: la corruzione della classe dirigente, lo
sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, i conflitti interetnici, la
schiavitù lavorativa di bambini e donne, l’esodo dalle campagne alle città e
l’emarginazione degli indigeni. Il documento evidenza che l’Asia sta
dimostrando un grande dinamismo economico e politico, nel quale si intravedono
anche progetti come le cooperative per il lavoro femminile, i centri di
accoglienza per i bambini abbandonati, le campagne anti-mine: iniziative indispensabili
per soccorrere le persone più deboli della società. Per far crescere questi
progetti è necessario però creare un clima adeguato. “Gli aiuti all’Asia – afferma
il testo finale – devono indirizzarsi verso la promozione della pace, della
tolleranza e del dialogo interreligioso, lasciando che siano gli stessi
asiatici i protagonisti del loro sviluppo”. (M.A)
LA
CARITAS DELLA REPUBBLICA CECA SI ATTIVA IN FAVORE DEI BAMBINI CECENI. RISTRUTTURATE
NELLA REPUBBLICA DEL CAUCASO 10 SCUOLE MATERNE CHE PERMETTONO AI BAMBINI DI
AVERE UN LUOGO SICURO E PULITO NEL QUALE GIOCARE
GROZNY. = Da quando il conflitto in Cecenia è
entrato in una nuova fase, un gruppo di cattolici provenienti dalla Repubblica
Ceca ha avuto la possibilità di recarsi nella Repubblica caucasica della
Federazione Russa per portare aiuto ai bambini. La Caritas ceca ha infatti
cominciato ad operare in quattro scuole materne di Grozny e in altri sei asili
che si trovano nei campi per i rifugiati vicino al confine con l’Ingushezia.
Gli edifici che ospitano le scuole sono stati ristrutturati, puliti e dipinti
con colori brillanti che ben si adattano all’atmosfera giocosa creata dai
bambini. La responsabile della Caritas a Grozny, Katerina Perunova ha spiegato i benefici che questi aiuti
stanno portando ai bambini. In città e zone distrutte dal conflitto, nelle
quali le condizioni sanitarie sono precarie, i bambini possono trovare un luogo
accogliente nel quale giocare serenamente. (M.A)
CANTO
DI PACE PER TENORE, CORO E ORCHESTRA SU TESTO DI GIOVANNI PAOLO II.
PRESENTATO
STAMANI PRESSO LA NOSTRA EMITTENTE IL CONCERTO
IN
PROGRAMMA LUNEDI’ 28 APRILE AD ANCONA. UN EVENTO ECCEZIONALE
CHE
VEDRA’ LA PARTECIPAZIONE DI PLACIDO DOMINGO
ROMA. = “Non faremo di pietra il nostro cuore come quello
dei Padri nel deserto … la tua Parola ci insegnerà a inventare la pace perché
la civiltà dell’amore racconti del Regno che è e che viene …” Sono alcune delle
parole pronunciate da Giovanni Paolo II all’incontro di preghiera per la pace
che si è tenuto ad Assisi il 24 gennaio 2002. Ora saranno al centro del
concerto intitolato “Musiche per la pace” in programma al Teatro delle Muse di
Ancona il prossimo 28 aprile. Ad interpretare il testo scritto dal Papa sarà il
tenore Placido Domingo su musica del maestro Marco Tutino, compositore di punta
del panorama musicale italiano. Durante il concerto, che nasce da un progetto
di Claudio Orazi, direttore artistico della stagione lirica del Teatro,
verranno eseguiti brani di Vivaldi, Mozart, Schubert e Pergolesi. La manifestazione,
una prima mondiale, cade in un contesto particolarmente cruciale, segnato dal
conflitto in corso, e vuol essere dunque anche momento di incontro intorno
a valori spirituali alti e messaggio di
speranza. Radiotre trasmetterà l’evento in diretta a partire dalle ore 21.
(A.M.)
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8
aprile 2003
- A cura di
Giada Aquilino -
"Cogliere l’opportunità della pace". Con queste
parole il presidente americano George Bush - da Belfast dov’è riunito col
premier britannico Tony Blair e il primo ministro irlandese Bertie Ahern – si è
rivolto ai partiti politici nordirlandesi, esortandoli ad adottare il piano
elaborato da Londra e Dublino per rilanciare l’accordo di pace del 1998. Bush
ha inoltre espresso il proprio apprezzamento per il nuovo premier palestinese
Abu Mazen e si è impegnato a pubblicare il tracciato per la ripresa dei
negoziati di pace tra israeliani e palestinesi.
“Dopo l’Iraq, gli Stati Uniti
attaccheranno Iran, Arabia Saudita, Egitto e Sudan”. Lo affermerebbe Osama Bin
Laden, che avrebbe fatto recapitare all’agenzia Associated Press un nastro
contenente la propria voce. Nella cassetta – sulla cui autenticità non esistono
ancora garanzie – si esortano i musulmani a compiere attentati suicidi e a
sollevarsi contro i governi arabi che sostengono la guerra in Iraq. Fra questi,
vengono citati Pakistan, Afghanistan, Bahrein e Kuwait.
Alla vigilia di una riunione del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu sulla crisi nucleare nordcoreana, la Russia ha messo in guardia la
comunità internazionale contro un possibile peggioramento della situazione.
Secondo il vice ministro degli Esteri di Mosca, Alexandre Lossioukov, la cosa
più importante per la soluzione della crisi rimane il riavvicinamento nelle
relazioni tra Washington e Pyongyang. Domani sera Mosca invierà il proprio
ministro della Difesa Serghiei Ivanov in Corea del Sud, mentre le autorità di
Seul faranno partire per Pechino il capo della diplomazia sudcoreana Yoon Young
Kwan: al centro delle missioni, proprio la corsa al riarmo nucleare di
Pyongyang.
Joseph
Kabila, capo di Stato della Repubblica Democratica del Congo, è ufficialmente
da ieri alla guida del nuovo governo di transizione. Il presidente dell’ex
Zaire ha giurato sulla nuova Costituzione, firmata nei giorni scorsi a Sun
City, in Sudafrica, dai protagonisti del conflitto nel Paese africano. Ce ne
parla Giulio Albanese:
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Alla cerimonia erano presenti quasi tutti i 362 delegati
che nei mesi scorsi hanno preso parte allo sforzo diplomatico di enormi
proporzioni - ben 19 mesi di negoziati – conclusosi in Sudafrica con
l’approvazione di una nuova Carta costituzionale e di un governo di transizione
in carica per due anni, in vista di libere elezioni. Nel Paese però le violenze
continuano. E’ di domenica sera la notizia del massacro avvenuto la scorsa
settimana nel territorio di Drodro, a 80 chilometri da Bunia, capitale regionale dell'Ituri.
Si parla di un
bilancio di oltre 900 morti: un bilancio che dimostra la mancanza di volontà
politica dei signori della guerra di passare dalle parole ai fatti.
Per la Radio Vaticana, Giulio Albanese.
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Passiamo
al processo di pace in Sudan. Il leader dei ribelli dell'Esercito di
liberazione del popolo sudanese, John Garang, ha incontrato ieri al Cairo il
presidente egiziano, Hosni Mubarak, ed il segretario generale della Lega araba,
Amr Mussa. I colloqui si sono svolti proprio mentre a Nairobi, in Kenya, si
apriva una nuova tornata di negoziati per la pacificazione nel Paese africano.
A mons. Cesare Mazzolari, vescovo di Rumbek nel sud Sudan, abbiamo chiesto che
cosa ci si possa attendere da queste trattative:
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R. - Non siamo stati disturbati da grandi battaglie in
questi ultimi due mesi. Siamo fiduciosi quindi che questo nuovo inizio sia
positivo. Non possiamo guardare immediatamente alla divisione in Stati
autonomi. Parliamo di un periodo ad interim di sei anni, in cui ci si
preparerà al referendum. Quando poi verrà la consultazione, si deciderà se
resteremo uniti o se ci sarà una separazione autonoma di nord e sud.
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Sciolto il Parlamento all’indomani del colpo di Stato
dello scorso 15 marzo, Francois Bozizé, autoproclamato presidente della
Repubblica centrafricana, ha creato il Consiglio nazionale di transizione, un
organo di valore consultivo che sarà convocato una volta ogni tre mesi. Tra i
suoi compiti, quelli di stendere la nuova Costituzione, preparare le prossime
elezioni, assistere il capo dello Stato nelle sue funzioni legislative.
La violenza continua a mietere vittime in Algeria. Ancora
una volta gli scontri sono particolarmente cruenti nella regione di Chlef, 200
chilometri ad ovest di Algeri: in un raid dell’esercito, appoggiato anche da
elicotteri da combattimento, sono rimasti uccisi undici ribelli legati al
Gruppo islamico armato (Gia) e due militari. Sono oltre 350 le vittime degli
scontri dall’inizio dell’anno.
Tre soldati russi hanno perso la vita stamani a Grozny, in
Cecenia, quando una mina telecomandata è esplosa al passaggio del veicolo
blindato su cui viaggiavano. Altre sei persone sono rimaste ferite nella
deflagrazione.
Armenia. Il presidente Robert Kotcharian ha firmato oggi
il decreto che fissa per il prossimo 25 maggio un referendum costituzionale per
ridurre i poteri del capo di Stato a favore del Parlamento. L’opposizione che,
dopo la sconfitta alle presidenziali del 5 marzo scorso, contesta il mandato di
Kotcharian, critica duramente anche la riforma per una Costituzione entrata in
vigore nel ’95.
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