RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno XLVII  n. 91 - Testo della Trasmissione martedì 1 aprile 2003

 

Sommario

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Il dono fondamentale della pace per l’umanità, in un messaggio del Papa all’Ordine religioso dei Minimi, che organizza domani a Paola, in Calabria, la prima “Marcia della penitenza”.

 

La solidarietà di Giovanni Paolo II con la popolazione della località boliviana di Chima travolta da una frana.

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Ancora morte e distruzione in Iraq. Sempre più difficile la situazione della popolazione irachena: con noi, padre Pasquale Borgomeo, Laura Boldrini e Fausto Biloslavo.

 

Preoccupante impatto della guerra nel Golfo sullo stato dei diritti umani nel mondo, secondo un Rapporto di Amnesty International: intervista con Daniele Scaglione.

 

CHIESA E SOCIETA’:

Totale convergenza dei vescovi italiani con il Papa nel dire no alla guerra: la crisi internazionale al Consiglio permanente della Cei appena concluso a Roma.

 

Nuova campagna contro l’Aids lanciata in Kenya dal governo, con la collaborazione delle comunità cristiane.

 

L’arcipelago indonesiano delle Molucche, martoriato dal conflitto interreligioso conclusosi nel 2002,  vive adesso il dramma degli sfollati

 

Ieri ha compiuto 102 anni il gesuita Antonio Ferrua, l’archeologo che ha partecipato agli scavi della tomba di San Pietro

 

La violazione dei diritti umani in Guatemala è purtroppo un fenomeno diffuso

 

24 ORE NEL MONDO:

Repubblica Democratica del Congo: accordo tra governo e ribelli per una bozza di Costituzione

 

Il segretario di Stato americano Powell, da oggi in Turchia, vedrà nei prossimi giorni a Bruxelles i rappresentanti dell’Unione europea

 

Il Giappone annuncia e poi smentisce il lancio di un missile terra-nave nordcoreano.

 

 

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

1 aprile 2003

 

L’URGENTE NECESSITA’ DI COSTRUIRE LA PACE,

NEL MESSAGGIO DEL PAPA ALL’ORDINE DEI MINIMI,

ORGANIZZATORE DI UNA “MARCIA DELLA PENITENZA”

 

 

- Servizio di Carla Cotignoli -

 

 

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“Questi forti momenti spirituali aiutano a prendere sempre più coscienza dell’urgente necessità di costruire la pace anche a costo di sacrifici personali”. Così il Papa nel messaggio inviato al superiore generale dell’Ordine dei Minimi, padre Giuseppe Fiorini Morosini, in occasione della Marcia della penitenza che domani, a Paola in Calabria, coinvolgerà migliaia di giovani.

        

Il Papa definisce “opportuna” questa manifestazione che “si svolge in un periodo segnato da non poche preoccupazioni e sofferenze, anche a motivo della guerra in corso”, e sottolinea l’importanza di “riflettere e implorare per l’umanità il fondamentale dono della pace”. “Bisogna essere soprattutto consapevoli – afferma – che tutto si può ottenere da Dio con la preghiera”.  Il Santo Padre definisce la Marcia “scuola di vita”, perché “permette di far riferimento ai luminosi esempi del Santo Francesco di Paola”.

 

         Rievocando la figura di questo uomo di Dio, “vissuto in un’epoca non priva di disagi e problemi a causa del perdurare di vari conflitti”, il Papa  mette in particolare rilievo il suo impegno per la pace, “facendo penitenza e mediando tra le parti in lotta”.  E’ nella “‘dolce pedagogia’ della penitenza evangelica” – dice – che si apprende “il vero segreto della pace”. E richiama quanto insegna il Santo:  “il conseguimento della pace ad ogni livello è legato alla conversione del cuore e ad un reale cambiamento di vita”. E lo cita. “Mentre si addensavano fosche nubi sull’Italia il Santo confidava: ‘Mi affatico a pregare per la pace’”. La definiva “il più grande tesoro che i popoli possono avere”, “una mercanzia che merita di essere acquistata a caro prezzo”.

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ALTRA UDIENZA DI OGGI E RINUNCIA DI AUSILIARE IN GERMANIA

                                                                       

Il Papa ha ricevuto in udienza in tarda mattinata il Patriarca di Gerusalemme dei latini, mons. Michel Sabbah.

 

Stasera, a Torino, mons. Sabbah prenderà parte ad una conferenza stampa presso l’Istituto Missioni della Consolata, sul tema della pace in Terra Santa con particolare riferimento agli sviluppi della crisi in Iraq.

 

In Germania, il Santo Padre ha accettato la rinuncia all’ufficio di ausiliare della diocesi di Trier, presentata dal vescovo mons. Alfred Kleinermeilert, per limiti di età.

 

 

LA VICINANZA DEL PAPA ALLA POPOLAZIONE

 COLPITA DALLA SCIAGURA MINERARIA IN BOLIVIA

 

Il Papa ha espresso la sua solidarietà alla popolazione della località mineraria di Chima, in Bolivia, dove uno smottamento di terra e di pietre abbattutosi su circa 400 case ha provocato sei morti e alcuni feriti, oltre a 150 dispersi, tra cui cinque bambini, secondo un bilancio ancora provvisorio.

 

In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Angelo Sodano, indirizzato al vescovo della diocesi di Coroico, mons. Juan Vargas Aruquipa, Giovanni Paolo II assicura la sua preghiera di suffragio per gli scomparsi e il suo sincero cordoglio ai familiari, come pure la sua vicinanza spirituale ai feriti ed a coloro che hanno perso le proprie abitazioni.

 

Al tempo stesso, il Santo Padre invita “le istituzioni pubbliche e le persone di buona volontà a prestare sollecitamente agli interessati un aiuto efficace con carità e spirito di solidarietà fraterna”. Con questi sentimenti, il Papa invia a conforto in una circostanza così dolorosa la sua Benedizione apostolica sia alle persone colpite che ai soccorritori.

 

 

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

La prima pagina si apre sottolineando che l'Iraq continua ad essere sotto “un fuoco incessante”.

Strage di civili ad un posto di blocco alleato.

Il telegramma di cordoglio del Papa per le vittime dello smottamento che ha investito la città di Chima, in Bolivia.

“Quella corona stretta dalla mamma di un soldato americano fatto prigioniero” è il titolo del pensiero di Giovanni Rulli dedicato all'Anno del Rosario.

 

Nelle vaticane, il Messaggio del Papa al Superiore generale dell’Ordine dei Minimi; una pagina sul tema: “2 aprile: memoria liturgica di san Francesco da Paola, eremita, fondatore dell'Ordine dei Minimi”.

Una pagina dedicata alle iniziative a favore della pace promosse nelle diocesi italiane.

Una pagina, a cura di Giovanni Fedrigotti, sul tema “Torino: celebrazioni per il centenario dell’incoronazione di Maria Ausiliatrice ed il XXV di pontificato di Giovanni Paolo II”.

Un articolo sull’ordinazione episcopale, a Castellaneta, conferita dal cardinale Camillo Ruini a mons. Pietro M. Fragnelli.

 

Nelle pagine estere, allarme del Pam: urgono gli aiuti alimentari per la popolazione civile coinvolta nel conflitto.

Kofi Annan invita le parti belligeranti a concedere “corridoi umanitari” per consentire l’opera di assistenza.

Riguardo al Medio Oriente, Israele ribadisce le proprie condizioni per riprendere i negoziati con i palestinesi.

 

Nella pagina culturale, un elzeviro di Luigi M. Personè dal titolo “Le angosciate lettere di Alfredo Oriani”.

Nell’“Osservatore libri”, un approfondito contributo di padre Gino Concetti dal titolo: “Pio XI strenuo difensore dei diritti di libertà della Chiesa e della società civile”: il nono e il decimo volume delle Encicliche e documenti pontifici, a cura di Ugo Bellocchi.

 

Nelle pagine italiane, in primo piano la situazione politica in riferimento alla crisi irachena: al via, alla Camera, il dibattito su mozioni riguardanti gli aiuti umanitari.

In rilievo, il tema dell'immigrazione.

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

1 aprile 2003

 

PIOGGIA DI FUOCO, NELLA NOTTE, SU BAGHDAD. COMBATTIMENTI IN CORSO

IN MOLTE ZONE DELL’IRAQ E NUOVE VITTIME TRA I CIVILI,

CAUSATE DALLA “PSICOSI DA KAMIKAZE”.

LA DIFFICILE SITUAZIONE DELLA POPOLAZIONE IRACHENA,

COSTRETTA NELLE CITTA’ PER PAURA DEL REGIME

- A cura di Alessandro De Carolis -

 

 

Baghdad ha vissuto la notte scorsa il più violento bombardamento dall’inizio della seconda Guerra del Golfo. Almeno 12 missili - secondo giornalisti e testimoni – hanno seminato distruzione nel centro cittadino, colpendo tra l'altro il complesso presidenziale del Palazzo della Repubblica e la sede del Comitato olimpico iracheno. Secondo il ministero dell’Informazione, bombe e missili avrebbero fatto 18 morti e più di 100 feriti. Ma anche sugli altri fronti la situazione resta drammatica. Si combatte da stamani a Najaf, con la 101.ma Divisione aviotrasportata americana impegnata in un duro confronto armato, mentre nel nord, raid aerei hanno preso di mira e bombardato le vicinanze della città di Kirkuk.

 

Proprio nei pressi della cittadina irachena, è maturata ieri una nuova strage di civili, frutto probabilmente della tensione che serpeggia tra gli angloamericani per le ripetute minacce di nuovi attentati kamikaze. La mancata sosta ad un posto di blocco alleato di un veicolo si è trasformata in un bagno di sangue, quando i soldati hanno aperto il fuoco, crivellando l’automezzo e uccidendo sette persone tra donne e bambini che erano a bordo. Qualche ora più tardi, a Samawa, nei pressi di Najaf, in Iraq centro  meridionale, e a Shatra, nel sud, due uomini non armati sono stati uccisi dai marines mentre con i loro camioncini stavano avvicinandosi a velocità sostenuta al posto di blocco.  La conferma di queste due tragedie è stata data dal Comando centrale anglo-americano (CentCom) nella base di As Sayliya, in Qatar.  

 

Tra le città irachene teatro delle battaglie più sanguinose in 13 giorni di guerra, vi è senza dubbio quella di Nassirya. Roberto Piermarini è riuscito a mettersi in contatto con l’inviato di Radio 24, Fausto Biloslavo, che si trova al seguito di una colonna militare alleata nei pressi della città:

 

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R. – Sembra che le forze irachene si stiano ritirando da Nassirya, perché rischiano l’accerchiamento. Questa è la novità.

 

D. – Come state vivendo in queste ore?

 

R. – Stiamo attendendo di capire cosa possiamo fare. Se riusciamo ad andare vicino a Nassirya, entrare… per noi giornalisti è molto difficile girare e lavorare.

 

D. – E’ pericoloso?

 

R. – Sì, è pericoloso, perché praticamente il fronte è ovunque. Anche nelle retrovie ci sono rischi di imboscate, di attacchi terroristici. Quindi, la prima linea è dappertutto. 

 

D. – Riuscite ad avere notizie di guerra, oppure sono sempre filtrate dai comandi?

 

R. – Fondamentalmente, noi abbiamo deciso per il momento di girare con gli americani, seguire i convogli e dormire nelle basi americane per questioni di sicurezza. Anche perché di civili iracheni se ne vedono veramente pochi in giro. Si vedono quelli che chiedono acqua e cibo ai lati delle strade. Le notizie, dunque, sono sempre quelle che si hanno attraverso gli americani. C’è da dire però che non sempre loro hanno delle notizie. La situazione è molto incerta - almeno qui, nell’Iraq meridionale, a Nassirya - oppure dove mi sono spinto ieri, fino a Najaf, a 120-130 km da Baghdad. Lo confermo: la situazione è molto incerta.

 

D. – Che notizie si hanno di Bassora?

 

R. – So solo che sicuramente il cerchio attorno alla città si è stretto sempre più. Gli inglesi stanno cercando di garantire una maggiore sicurezza nelle zone limitrofe, come Zubayr, ma come anche Umm Qasr, il porto che è stato conquistato per primo, e che sembra essere l’unica zona veramente conquistata e relativamente sicura, nonostante le sacche di resistenza presenti anche lì.

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Il capitolo umanitario. Il capo della delegazione della Commissione Europea in Giordania, Robert Van der Meulen, ha  annunciato – in un comunicato rilanciato dalla stampa di Amman - lo stanziamento di 327 milioni di euro per aiuti  umanitari alle vittime del conflitto in Iraq. Anche un altro dei moltissimi organismi umanitari in azione all’interno e all’esterno del Paese mediorientale, Save the Children, ha fissato in circa 10 milioni di dollari l’obiettivo di una propria raccolta di solidarietà in favore dei bambini iracheni. “A causa di questa guerra - ha dichiarato Angelo Simonazzi, direttore generale di Save the Children Italia -  ci potrebbe essere oltre 1 milione di persone che sarà costretto ad abbandonare la propria casa e la propria comunità e in queste situazioni sono sempre i bambini quelli più colpiti.

 

Finora, in verità, uno dei “paradossi” del conflitto nel Golfo è proprio la mancanza praticamente totale di profughi. La Croce Rossa internazionale, Caritas internationalis e l’Onu in particolare si sono adoperate per allestire ai confini con l’Iraq dei campi di accoglienza. Delle attese masse di sfollati in fuga dalla guerra, però, quasi nessuna traccia, se si eccettua qualche centinaio di persone che ha chiesto all’ufficio siriano dell’Acnur, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, di poter formalizzare il proprio status. Come si spiega questo mancato afflusso e, soprattutto, è un fatto sorprendente? Risponde Laura Boldrini, portavoce italiana, raggiunta telefonicamente ad Amman, in Giordania, da Alessandro De Carolis:

 

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R. – Non ci meraviglia oltremodo, questa situazione. Dobbiamo tenere presente che il regime di Saddam Hussein è un regime basato sulla propaganda. Sono anni che questa propaganda si insinua tra la popolazione e rafforza in qualche modo nella convinzione delle persone l’idea che Saddam Hussein sia l’unica persona in grado di dare dignità al popolo iracheno, ingiustamente penalizzato dalle sanzioni dell’Onu. Un atteggiamento di questo tipo - propagato attraverso i media per anni ed anni - rafforza chiaramente, ripeto, il regime il quale, d’altro canto, sembrerebbe aver emesso un decreto, intimando alla popolazione di non lasciare le proprie abitazioni, pena la confisca dei beni, la perdita della nazionalità e il trattamento riservato ai traditori. Inoltre, c’è da dire che questa gente si è molto impoverita, perché comunque l’embargo ha ridotto lo standard di vita della popolazione irachena. Per fuggire, quindi, ci vogliono enormi quantità di denaro, che non sono alla portata dell’iracheno medio.

 

D. – Gli aiuti promessi alla gente possono aver funzionato da deterrente alla fuga dalle città?

 

R. – E’ stata fatta una distribuzione di viveri più cospicua, più razioni sono state messe insieme: c’è in effetti una copertura che va fino alla fine di aprile. Si capisce, evidentemente, che la sopravvivenza è in qualche modo garantita dal punto di vista alimentare. Dunque, sì, non c’è la necessità impellente di dover scappare per procacciarsi viveri per sopravvivere, non c’è un effetto immediato di fuga della popolazione. Questo effetto, però, matura di solito nel periodo medio-lungo, quando non ci sono più risorse per andare avanti e quando la popolazione è allo stremo delle forze.

 

D. – Quando prevedete che ciò potrà accadere?

 

R. – Lo scenario di oggi, che vede gli iracheni rimanere nelle città per paura dei bombardamenti, per paura del regime, per mancanza di risorse, potrebbe cambiare molto rapidamente se si dovesse arrivare alla resa dei conti interna, e quindi ad uno scenario da guerra civile. Noi, come Acnur, abbiamo il dovere di essere pronti al peggio, abbiamo il dovere di affrontare quanto necessario per far fronte ad un eventuale flusso di profughi.

 

D. – Che tipo di coordinamento in Iraq tra le agenzie umanitarie impegnate nella distribuzione degli aiuti?

 

R. – Le Nazioni Unite nel loro insieme, attraverso le singole agenzie umanitarie, stanno inviando dentro dei convogli che però sono a ritmo ridotto e la distribuzione interna viene fatta dallo staff locale. Per noi, come famiglia delle Nazioni Unite, è importante che l’aiuto umanitario sia gestito dalle agenzie dell’Onu e dagli organismi non governativi, anziché dai militari, perché questo è un mestiere che va fatto con determinati criteri. Altrimenti, si finisce per ritrovarsi in una situazione di arrembaggio, nella quale i più forti hanno la meglio e le persone più deboli, che avrebbero più bisogno, non ricevono gli aiuti.

 

D. – Avete notizie aggiornate sulla situazione umanitaria a Bassora?

 

R. – Non abbiamo delle informazioni dirette, di prima mano. Sappiamo comunque che una parte della popolazione ancora non ha accesso all’acqua. Le tubature sono state ripristinate solo al 50 per cento, e questo è un problema enorme: Bassora è una città che ha sempre avuto il problema di approvvigionamento di acqua. Ricordo che l’ultima volta che ci sono stata c’erano interi quartieri con le fogne a cielo aperto, residuo della prima Guerra del Golfo del ’91. E vi erano anche zone distrutte dai bombardamenti di quel momento. Bassora, quindi, è una città già abbastanza gravata di problemi. E questo ci preoccupa, nonostante vi siano in corso le distribuzioni.

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         Le testimonianze di civili in fuga da Bassora, raccolte da un giornalista della Reuters, suonano come conferma delle pressioni che la popolazione è costretta a subire da parte del regime iracheno. “Membri del partito Baath – racconta una di queste testimonianze - girano per Bassora con megafoni, avvertendo la popolazione che farebbe meglio a combattere”. Gli uomini della polizia segreta di Saddam, spiega ancora, “entrano nelle case e ci chiedono perché i nostri parenti non stanno combattendo contro gli americani e i britannici”. Ma all’interno del Paese c’è chi tenta di opporsi al regime con la forza delle proprie convinzioni e con il coraggio di manifestarle. Come questa donna curda, madre di due figli morti per l’indipendenza del Kurdistan, che descrive l’impegno suo e di altre donne come lei per consegnare l’Iraq, e il suo popolo, ad un futuro di pace:

 

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“La nostra organizzazione “Madri della pace” nasce da una esperienza personale, dalla sofferenza per la campagna di annientamento del popolo curdo, cui non è riconosciuto alcun diritto. Lingua, identità, usanze e tradizioni ci sono state negate con la forza, ma con la guerra non si arriva a nessuna soluzione. La guerra tra curdi e turchi ha colpito entrambi i popoli: ecco perché abbiamo cercato di coinvolgere anche le madri turche, tenendoci per mano e lottando insieme per la pace. Basta la guerra, basta il sangue, perché la guerra è distruzione per l’umanità intera”.

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Una guerra partita per essere rapida e definitiva, che invece sembra segnare il passo nell’incertezza dei tempi. La tensione sempre più palpabile che si registra nei Paesi arabi confinanti con l’Iraq, dove transitano combattenti volontari decisi ad affiancare Saddam Hussein. Sono alcune chiavi di lettura di un conflitto giunto ormai alla soglia della seconda settimana di durata. Sul punto, ecco una riflessione del nostro direttore generale, padre Pasquale Borgomeo:

 

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Non era necessaria una grande immaginazione per prevedere le ricadute di una guerra all’Iraq sui sentimenti delle masse arabe e musulmane. Basta leggere i giornali per constatare quali sono le reazioni popolari in Giordania, Siria, Palestina, Egitto, Afghanistan, Pakistan. Gruppi d’iracheni rientrano in patria per difendere il proprio Paese, volontari palestinesi, yemeniti, ceceni accorrono per combattere quelli che essi chiamano gli infedeli. Il fuoco che cova sotto la cenere rischia di diventare un incendio di proporzioni incalcolabili.

 

Paradossalmente Saddam Hussein, il leader più laico e più malvisto dai Paesi Arabi, quello che i fondamentalisti islamici hanno sempre considerato un miscredente, rischia di diventare per le masse arabe un simbolo di riscossa di un Islam ferito e umiliato. Diventa un eroe un dittatore senza scrupoli che sta trascinando nella sua rovina un numero incalcolabile di vittime innocenti che il mondo arabo e musulmano metterà senza distinguo sul conto del nemico Occidente.

 

Si stanno così verificando puntualmente tutti i mali paventati alla vigilia di una guerra che si poteva evitare. E per la popolazione civile si annunziano giorni ancora più luttuosi. Si moltiplicano infatti i casi di errori e sbavature da parte di militari alleati costretti a combattere in scenari che sono ormai di guerriglia più che di guerra. Saddam aveva minacciato di trasformare la sua resistenza in un combattimento casa per casa, e di servirsi dei civili come scudi. Si profila ora per i soldati alleati anche l’incubo dei kamikaze, mentre l’abbandono delle divise da parte dei militari di Saddam fa loro vedere e temere in ogni iracheno un possibile aggressore.

 

In una battaglia senza quartiere e senza regole è sempre la popolazione civile a pagare il prezzo più alto, mentre è evidente che i fedelissimi di Saddam cercheranno di portare il conflitto verso il più esasperato grado di disumanità e di barbarie, essi che ormai non hanno più niente da perdere e considerano martirio ogni attacco suicida.

 

Sono queste le considerazioni che inducono ogni uomo di buona volontà ad augurarsi e chiedere una rapida fine di questa guerra. Sono queste le preoccupazioni che spingono ogni vero credente ad implorare da Dio onnipotente e misericordioso la fine di questa tragedia. Sono queste le ansie che fanno più insistente la nostra preghiera di cristiani in comunione con il Papa, indomito e orante profeta di pace.

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PREOCCUPANTE IMPATTO DELLA GUERRA NEL GOLFO

SULLO STATO DEI DIRITTI UMANI NEL MONDO:

A DENUNCIARLO IN UN RAPPORTO E’ AMNESTY INTERNATIONAL

 

- Intervista con Daniele Scaglione -

 

Sempre in prima linea nel denunciare le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Saddam Hussein, Amnesty International non ha tuttavia tralasciato di lanciare un allarme sull’impatto che la guerra in Iraq sta avendo sullo stato dei diritti fondamentali, anche in aree lontane dal conflitto. In un documento diramato ieri, l’organizzazione umanitaria denuncia “attacchi al diritto alla libertà di espressione” in 14 Paesi assieme ad un ricorso “eccessivo e arbitrario” all’uso della forza da parte delle autorità contro i manifestanti pacifisti. Sugli aspetti fondamentali del rapporto, Alessandro Gisotti ha intervistato Daniele Scaglione, già presidente di Amnesty Italia:

 

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R. – Il problema riguarda soprattutto la libertà di espressione. Manifestare contro la guerra è molto difficile in Paesi anche al di sopra di ogni sospetto come potrebbero essere il Belgio, la Danimarca, la stessa Norvegia. Ci sono stati arresti arbitrari o comunque molto discutibili che proprio sono stati portati nei confronti di manifestanti che protestavano contro lo scoppio della guerra. Poi altri Paesi, invece più direttamente coinvolti, come possono essere Sudan o lo Yemen, dove l’opposizione è sempre stata molto martoriata da grandi repressioni, che in questo periodo si intensificano, utilizzando un po’ anche il pretesto della guerra e cioè la disattenzione che ne deriva sulle violazioni dei diritti umani.

 

D. – Ecco, ma secondo Amnesty International, la libertà di espressione è davvero in pericolo nel mondo occidentale?

 

R. – Beh, è in pericolo e non solo. Ci sono stati subito dopo l’11 settembre, in Paesi con una tradizione sicuramente particolare come gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, l’introduzione di atti contro il terrorismo assolutamente non rispettosi degli standard internazionali sul tema dei diritti umani e anche sulla libertà d’espressione.

 

D. – Quali sono le proposte di Amnesty nei confronti di quei governi che hanno irrigidito le proprie norme in materia di sicurezza, misure che incidono sulla sfera delle libertà personali?

 

R. – Più che proposte noi chiediamo assolutamente il ripristino delle garanzie minime così come sono definite dagli standard internazionali a maggior ragione con maggior forza, lo chiediamo nei confronti di quei Paesi che parlano di un’azione voluto nel rispetto delle norme della democrazia e nel rispetto dei diritti umani. C’è uno stridente contrasto tra il fatto che Paesi come la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti d’America, stiano compiendo un’azione di forza in nome delle libertà democratiche che violano all’interno dei loro stessi Paesi. Questo ovviamente non giustifica gli altri, non giustifica Paesi anche nel Sud America, anche lontanissimi dalla zona del conflitto, che usano il pretesto della guerra e della lotta al terrorismo per arrestare, talvolta, semplicemente degli oppositori politici. C’è veramente un abbassamento di standard a tutti i livelli, un abbassamento di attenzione terribilmente preoccupante.

 

D. – Ieri, il Dipartimento di Stato americano ha presentato il suo annuale rapporto sui diritti umani, muovendo dure accuse alla Cina. Sul Medio Oriente, invece, Powell non ha risparmiato critiche a palestinesi ed israeliani. Che valutazione date di questo documento?

 

R. – Questo rapporto che esce tutti gli anni denuncia in maniera spesso molto documentata e molto buona le violazioni dei diritti umani che avvengono anche in 200 Paesi e c’è sempre un assente, questo và detto, gli Stati Uniti d’America. Poi comunque questo rapporto viene un po’ strumentalizzato ai fini della politica estera statunitense. Penso che sia particolare il fatto del modo in cui vengono definite situazioni come quelle del Qatar o del Kuwait, Paesi dove tutto sommato, c’è una situazione generale di rispetto dei diritti dei cittadini e questo non è assolutamente vero. A noi di Amnesty International non risulta ciò. Possiamo insinuare che sia questa posizione un po’ più blanda come ringraziamento rispetto allo schieramento di questi due Paesi nell’ambito della guerra attuale… Ma lasciamo perdere, però di fatto il problema esiste, c’è.

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CHIESA E SOCIETA’

1 aprile 2003

 

TOTALE CONVERGENZA DEI VESCOVI ITALIANI CON IL PAPA NEL DIRE NO

ALLA GUERRA IN IRAQ: LA DIFFICILE SITUAZIONE INTERNAZIONALE AL CENTRO

DEL CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

APPENA CONCLUSO A ROMA

- A cura di Adriana Masotti -

 

ROMA. = La viva apprensione dei vescovi italiani per la guerra in Iraq e per le ripercussioni del conflitto sugli equilibri internazionali ha pervaso la sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente tenutosi a Roma dal 24 al 26 marzo scorso. I presuli hanno ribadito il loro no alla guerra in piena e totale adesione alle parole di Giovanni Paolo II e hanno invitato la comunità cristiana a una preghiera intensa per ottenere da Dio il dono della pace. I vescovi esprimono apprezzamento per la mobilitazione di tanti contro la guerra, un impegno che non deve essere però mai confuso “con finalità e interessi assai diversi, o inquinato da logiche che in realtà sono di scontro”. Nessuna ideologia, infatti - ha detto stamani in conferenza stampa mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana – può appropriarsi della pace. Per i vescovi inoltre l’antidoto più efficace per contrastare il terrorismo e evitare i conflitti è il costante impegno a far crescere una “pedagogia della pace”, fondata sui quattro pilastri della verità, giustizia, amore e libertà contenuti nella “Pacem in terris” di Giovanni XXIII.  Venendo ad altri temi, il Consiglio episcopale permanente ha preso atto dell’approvazione della legge sulla riforma scolastica e di quella sul mercato del lavoro, mentre si è detto preoccupato per la proposta di legge che vuole abbreviare i tempi per il divorzio. I vescovi auspicano inoltre che la discussione sul disegno di legge sul riassetto radiotelevisivo in Italia approdi a regole chiare a garanzia del pluralismo e del rispetto degli utenti e ribadiscono l’attesa per l’esito in Senato del provvedimento di clemenza, già approvato dalla Camera, nei riguardi dei detenuti. Infine l’invito a tutte le parti politiche ad abbassare i toni del dibattito e a non pregiudicare il rispetto reciproco alla base del sistema democratico del Paese.

 

 

L’ARCIPELAGO INDONESIANO DELLE MOLUCCHE,

MARTORIATO DAL CONFLITTO INTERRELIGIOSO CONCLUSOSI NEL 2002,

VIVE ADESSO IL DRAMMA DEGLI SFOLLATI

 

AMBON. = Il conflitto interreligioso che per tre anni ha insanguinato l’arcipelago indonesiano delle Molucche, finito da diversi mesi, apre ora il problema degli sfollati. Stanno infatti sorgendo difficoltà nella gestione del rientro a casa di alcuni gruppi di profughi, costretti a suo tempo a lasciare le loro abitazioni a causa dei frequenti scontri tra musulmani e cristiani. A fornire notizie all’agenzia missionaria Misna sui recenti sviluppi, è il Centro di crisi della diocesi cattolica di Ambon, capoluogo delle Molucche. I religiosi riferiscono che, durante il mese di marzo, più di 1000 famiglie sarebbero dovute tornare da Ambon a Tobelo, la loro terra nelle Molucche settentrionali. Di fatto però, nonostante gli sfollati fossero pronti a partire, nessuno se ne è occupato e i profughi non hanno potuto raggiungere i luoghi di origine. Una situazione di confusione si è creata anche in relazione a 310 famiglie di sfollati provenienti da Namlea, sull’isola di Buru, che si sono rifugiate ad Ambon. L’amministrazione del capoluogo delle Molucche sta predisponendo il loro rientro nei luoghi originari, ma al momento di registrarsi per la partenza, le famiglie che si sono segnate nei registri pubblici erano non meno di 700. Le autorità ipotizzano che, per ottenere aiuti doppi, molte famiglie si siano registrate due volte: la prima con il nome del padre, la seconda con quello della madre. A gennaio erano ancora oltre 330 mila gli sfollati interni a causa del conflitto interreligioso scoppiato nelle Molucche nel gennaio 1999 e conclusosi ufficialmente nella primavera del 2002, con un accordo siglato da musulmani e cristiani a Malino, nel Sulawesi. (A.L.)

 

 

IERI HA COMPIUTO 102 ANNI IL GESUITA ANTONIO FERRUA,

L’ARCHEOLOGO CHE HA PARTECIPATO AGLI SCAVI DELLA TOMBA DI SAN PIETRO

 

ROMA. = Ha compiuto ieri centodue anni il gesuita Antonio Ferrua, studioso ed archeologo che ha partecipato dal 1940 al 1949 agli scavi sotto la Basilica di San Pietro per volere di Pio XII. E’ stato festeggiato dalla comunità della rivista dei gesuiti italiani “Civiltà Cattolica” e dagli ex alunni della scuola di archeologia cristiana. Nato nel 1901 a Trinità, in provincia di Cuneo, padre Ferrua entrò diciottenne tra i gesuiti, compiendo in Piemonte tutto il caratteristico percorso di formazione della Compagnia. Sacerdote dal 1930, il giovane gesuita frequentò anche l’università di Torino, dove si laureò tre anni dopo con una tesi in teologia classica sugli epigrammi di Papa Damaso (366-384), lo straordinario costruttore della Roma cristiana fondata sul culto degli apostoli e dei martiri. Sin dal suo trasferimento a Roma, avvenuto nel 1935, il giovane religioso ha collaborato con la rivista “Civiltà Cattolica”. Per più di mezzo secolo docente al Pontificio Istituto di archeologia cristiana e membro di prestigiose istituzioni culturali e accademiche, padre Ferrua fu dal 1948 anche conservatore del Museo sacro della Biblioteca Vaticana. E’ ricordato soprattutto per la lunga controversia che l’ha opposto alla collega Margherita Guarducci (1903-1999) sulla tomba e le reliquie di San Pietro. In questo caso i prevedibili ruoli dei due studiosi s’invertirono. Fu infatti il religioso a dichiararsi ripetutamente non convinto della dibattuta identificazione, sostenuta invece con passione dalla epigrafista laica. Il gesuita coordinò inoltre, per incarico di Papa Pio XII, la ricostruzione di San Lorenzo al Verano, semidistrutta dal bombardamento che il 19 luglio 1943 devastò il popoloso quartiere romano. Sono oltre quattrocento le sue pubblicazioni dove sono narrate scoperte di catacombe e illustrati sarcofagi, affreschi ed iscrizioni. L’epigrafista gesuita ha pubblicato ben quarantamila epigrammi in sei monumentali volumi delle Inscriptiones Christianae Urbis Romae. Un capolavoro assoluto è considerata la sua edizione critica (1942) degli Epigrammata Damasiana. Per questa capacità di lavoro e per il taglio spassionato e “laico” della sua ricerca padre Ferrua è stato a ragione definito il più grande successore di Giovanni Battista de Rossi, lo studioso italiano che nella seconda metà dell’Ottocento fondò la moderna archeologia cristiana. (A.L.)

 

 

LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN GUATEMALA È PURTROPPO

UN FENOMENO DIFFUSO. LO HA CONSTATATO, DURANTE LA RECENTE VISITA NEL PAESE, UNA DELEGAZIONE DELLA COMMISSIONE INTERAMERICANA

DEI DIRITTI UMANI (CIDH)

 

CITTA’ DI GUATEMALA. = La situazione dei diritti umani in Guatemala è in costante e grave deterioramento. Lo ha constatato una delegazione della Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh), durante una recente visita di cinque giorni nel Paese centroamericano. Chiamata ad esaminare lo scenario nazionale a sette anni dagli accordi di pace che nel 1996 posero fine a 36 anni di guerra civile, la missione della Cidh ha notato “segnali allarmanti” sulla fragilità dello Stato di diritto. “In particolare, l’impunità, la corruzione ed il crimine organizzato rappresentano una seria minaccia all’ordinamento democratico” ha rilevato José Zalaquett, capo della delegazione. Gli esperti della Cidh sono inoltre venuti a conoscenza dell’esistenza di gruppi illegali dediti a “narcotraffico, sequestri, contrabbando, attacchi e minacce contro gli operatori di giustizia”. “Alcuni settori delle istituzioni – ha rilevato Zalaquett – potrebbero essere coinvolti in questi crimini”. In conclusione, il capo della missione della Cidh ha citato la persistente discriminazione contro i popoli indigeni, che rappresentano il 60 per cento degli 11 milioni e 200mila guatemaltechi, e l’aumento della violenza verso i “bambini di strada”.  (A.L.)

 

 

“GUERRA TOTALE ALL’AIDS”.

E’ LA NUOVA CAMPAGNA LANCIATA  DAL GOVERNO KENYOTA

CON LA COLLABORAZIONE ANCHE DELLE COMUNITÀ CRISTIANE

 

NAIROBI. = Il governo kenyota ha lanciato una nuova massiccia campagna contro l’Aids in cui sono state coinvolte anche le comunità cristiane. Il programma, intitolato “Guerra totale all’Hiv/Aids” e finanziato da un prestito di 50 milioni di dollari della Banca Mondiale, è stato presentato la settimana scorsa a Nairobi. Tra le novità più significative figura lo stanziamento di fondi a favore di progetti gestiti dalle organizzazioni religiose del Paese. L’obiettivo del programma è di intensificare la collaborazione con le Chiese per rispondere in modo più efficace all’emergenza Aids. Una collaborazione che si può rivelare sicuramente fruttuosa, nonostante le divergenze esistenti sull’uso dei profilattici, consigliato dalle autorità governative ed osteggiato dalla Chiesa. Come ha infatti tenuto a ribadire mons. Philip Sulumeti, vescovo di Kakamega e presidente della Commissione episcopale per la salute e la famiglia, i vescovi insistono sulla castità e sulla fedeltà coniugale quale unico efficace rimedio contro diffusione della malattia. Le organizzazioni religiose in Kenya hanno già stretti rapporti collaborazione nella lotta contro l’Aids attraverso un apposito organismo di coordinamento, il Kenya Interreligious Aids Consortium, istituito nel giugno 2001. (A.L. – L.Z.)

 

 

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24 ORE NEL MONDO

1 aprile 2003

- A cura di Giada Aquilino -

 

Ad oltre quarant’anni dall’indipendenza dal Belgio e dopo una lunga e sanguinosa guerra civile che ha destabilizzato tutta l’Africa centrale, la Repubblica Democratica del Congo avrà finalmente una Costituzione. Oggi a Sun City, in Sudafrica, infatti, i rappresentanti del governo di Kinshasa e quelli dei principali movimenti ribelli hanno firmato una bozza di carta costituzionale. Sul documento Andrea Sarubbi ha raccolto il commento di padre Valerio Shango, portavoce in Italia dei vescovi congolesi:

 

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R. - Quest’accordo consiste nel tirar fuori da tutte le forze in campo quattro vice presidenti: uno appartenente al governo, due alle forze ribelli ed un altro all’opposizione non armata. E’ una forma di accordo di non belligeranza. Si spera che i congolesi finalmente possano riconciliarsi definitivamente nei prossimi mesi, per riportare il Paese alla sua normalità e stabilità.

 

D. – E’ un accordo che può reggere?

 

R. – Noi tutti lo speriamo. E’ un’ultima chance che viene data a queste fazioni ribelli dai politici e dal governo. I presupposti ci sono: c’è l’appoggio che la comunità internazionale ha dato tramite l’ex presidente del Botswana, Ketumile Masire, e quello fornito dall’Onu. E poi c’è anche la volontà della Chiesa congolese, che sta camminando con il popolo per uscire da questo clima di sofferenza.

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Il segretario di Stato americano Colin Powell, da oggi ad Ankara, incontrerà nei prossimi giorni anche la troika diplomatica dell'Unione europea, per fare il punto sulla crisi irachena. I colloqui si terranno nella sede del quartier generale della Nato, a Bruxelles, dov’è atteso il capo della diplomazia statunitense. A darne l’annuncio è stata la Commissione europea, precisando che il luogo degli incontri è stato scelto dagli Stati Uniti per motivi di sicurezza.

 

Potrebbe tenersi il prossimo 8 aprile a Belgrado, a margine di una riunione dei Paesi balcanici, l’incontro tra il premier greco Costas Simitis e quello turco Recep Tayyip Erdogan. Al centro del colloquio ci sarà la questione dell’isola di Cipro, separata dagli anni ’70 tra parte greca e parte turca. Tre settimane fa all'Aja erano falliti i colloqui tra le due parti, patrocinati dall’Onu. Fonti ufficiali di Atene precisano però che il faccia a faccia Simitis-Erdogan “non è ancora sicuro al 100%”.

 

Il piano di pace del Quartetto per il Medio Oriente, composto da Stati Uniti, Russia, Unione europea e Onu, “non è negoziabile”. Lo ha detto il consigliere americano per la Sicurezza nazionale, Condoleeza Rice, sottolineando che Israele “deve fare la sua parte” per la creazione di uno Stato palestinese entro il 2005. Da parte israeliana, giungono le dichiarazioni del ministro degli Esteri Silvan Shalom, secondo cui la ripresa del dialogo con i palestinesi dipende “dalla sospensione degli attentati terroristici”. Intanto la situazione nei Territori rimane grave. Lo testimonia il team medico di Bergamo che per una settimana ha lavorato all’Ospedale Europeo di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, ed ha eseguito oltre 50 interventi, per lo più su bambini rimasti sfigurati in incidenti o in scontri con l’esercito israeliano. Francesca Sabatinelli ha registrato l’esperienza del dottor Enrico Robotti, responsabile del gruppo:

 

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R. – I nostri pazienti sono stati per un 70 per cento bambini, diciamo dai 2 ai 14-15 anni, con patologie legate soprattutto a ustioni. Abbiamo inoltre riscontrato deformità degli arti, traumi dovuti a realtà belliche, patologie oncologiche che la medicina locale non può curare.

 

D. – Quanto ha influito sul vostro lavoro - e quanto influisce sul lavoro quotidiano dei medici palestinesi - la situazione bellica che si vive in quella zona?

 

R. – Massicciamente. La presenza di check point costanti limita gli spostamenti. A volte ci si impiega anche una giornata intera per spostarsi di pochi chilometri. Questo comporta una difficoltà d’accesso dei pazienti ad alcune strutture che fondamentalmente sarebbero le uniche strutture adeguate. Si parla dell’Ospedale di Gaza e di quello di Khan Yunis.

 

D. – Ridurre i danni causati da ustioni e ferite ha anche un’importanza sociale a Gaza: perché?

 

R. – Certamente è molto significativo. L’unica ‘dote’ che le piccole pazienti di 3-4 anni porteranno per tutto il loro futuro è il viso, perché il benessere per queste persone in gran parte non esiste!

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E’ arrivata la smentita del Giappone sulla notizia, annunciata poche ore fa dalle stesse autorità di Tokyo, riguardante il lancio da parte della Corea del nord di un missile terra-nave. Il portavoce ufficiale del governo nipponico ha comunicato di ''non essere in grado di confermare ufficialmente l'avvenuto lancio''. Dubbi sull’accaduto erano stati espressi dalla Corea del sud, mentre le autorità di Pyongyang hanno mantenuto il silenzio più totale.

 

Oltre 34 milioni di spagnoli saranno chiamati alle urne il prossimo 25 maggio per le elezioni amministrative che interesseranno più di 8mila municipalità. Diciotto milioni invece gli elettori che dovranno rinnovare i Parlamenti di 13 regioni autonome, su un totale di 17.

 

Ad otto anni di distanza, sono state seppellite ieri le prime 600 vittime del massacro di Srebrenica, in Bosnia. Nel luglio del ’95, i miliziani serbobosniaci di Ratko Mladic uccisero oltre 7mila musulmani. Il servizio di Emiliano Bos:

 

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Oltre diecimila musulmani hanno partecipato alla cerimonia funebre che ha ricordato i più vergognosi eccidi in Europa della seconda guerra mondiale. “Che il dolore diventi speranza, la vendetta giustizia e le lacrime della madri diventino preghiera” ha detto Mustafa Ceric, leader religioso dei musulmani di Bosnia. “Un orrore consumato sotto gli occhi del mondo” ha aggiunto Paddy Ashdown, attuale rappresentante internazionale. I caschi blu dell’Onu, incaricati di proteggere la popolazione, in quei frangenti non furono capaci di fermare la strage di civili, i cui corpi furono gettati in una sessantina di fosse comuni. Delle 600 vittime sepolte ieri, 599 erano uomini ed una soltanto era una donna, una ragazza ventenne: le vittime sono state tutte riconosciute grazie al Dna.

 

Per Radio Vaticana, Emiliano Bos.

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Paura a Cuba, dopo il tentato dirottamento di un aereo civile con 46 persone a bordo. Un pirata dell’aria ha cercato di deviare un velivolo diretto all’Avana verso gli Stati Uniti. La mancanza di carburante ha impedito la riuscita del dirottamento. L’aereo si trova ora su una pista dell’aeroporto internazionale dell’Avana ed i passeggeri sono ancora ostaggio del dirottatore. Le autorità cubane stanno trattando. Tutti i voli in partenza ed in arrivo sono stati comunque sospesi.

 

 

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